vanno insieme,  e che tuttavia si sono collegati contro di me: una

      specie di alleanza Carlo-repubblicana.  Allora mi  sono  ricordato

      che  questa mattina c'era festa in casa vostra,  ed eccomi qua: ho

      fame, nutritemi; sono annoiato, svagatemi."

      "Questo è il mio dovere d'anfitrione,  amico caro"  disse  Alberto

      suonando  per il cameriere,  mentre Luciano colla sua bacchettina,

      dal pomo cesellato ed incrostato di turchinette,  faceva saltare i

      giornali  spiegati.   "Germano,  una  bicchiere  di  Xeres  ed  un

      biscotto.  Frattanto,  mio  caro  Luciano,  ecco  dei  sigari,  di

      contrabbando  bene  inteso:  v'invito  a fumarli e a persuadere il

      vostro ministro a vendercene degli uguali,  invece delle foglie di

      noce che condanna i buoni cittadini a fumare."

      "Peste,  me  ne  guarderò  bene.  Quando  questi  vi venissero dal

      Governo non li vorreste più, e li ritrovereste esecrabili. D'altra

      parte ciò non  ha  rapporto  coll'interno,  spetta  alle  finanze,

      indirizzatevi  al  signor  Humann,   sezione  delle  contribuzioni

      indirette, corridoio A, numero 26."

      "In verità" disse Alberto,  "mi sorprendete per le  vostre  estese

      cognizioni. Ma prendete un sigaro!"

      "Ah, caro conte" disse Luciano accendendo un sigaro ad una candela

      color  rosa  in  una  bugia d'argento dorato,  e rovesciandosi sul

      divano,  "quanto siete felice per non  avere  nulla  da  fare!  In

      verità, non conoscete la vostra felicità!"

      "E che fareste dunque,  mio caro rappacificatore di regni" rispose

      Morcerf con una leggera ironia,  "se non  aveste  nulla  da  fare?

      Come!  Segretario particolare di persone influenti, lanciato ad un

      tempo nella gran cabala europea e nei piccoli intrighi di  Parigi;

      dovendo  dirigere le elezioni;  facendo più nel vostro gabinetto e

      col vostro telegrafo di quel che non ha fatto Napoleone sui  campi

      di battaglia colla spada e colle vittorie;  possedendo venticinque

      mila lire di rendita,  oltre il vostro impiego,  un cavallo di cui

      Chateau-Renaud vi ha offerto quattrocento luigi e non glielo avete

      voluto  dare,  un sarto che non vi sbaglia mai un paio di calzoni;

      avendo l'Opera,  il  Jockey  Club,  e  il  teatro  del  Varietà  a

      disposizione,  non  trovate  dunque  che  tutto  ciò sia buono per

      distrarvi? Ebbene sia, vi distrarrò io."

      "Ed in qual modo?"

      "Col farvi fare una nuova conoscenza."

      "Un uomo o una donna?"

      "Un uomo."

      "Oh, ne conosco già troppi!"

      "Ma è uno come non ne conoscete, quello di cui vi parlo."

      "E di dove viene dunque? di capo al mondo?"

      "Fors'anche di più lontano."

      "Oh,  diavolo!  Spero bene che non sia quello che deve portare  la

      nostra colazione?"

      "No, state tranquillo, la nostra colazione è nelle cucine materne.

      Ma dunque avete fame?"

      "Sì,  lo  confesso,  per  quanto  sia umiliante il dirlo.  Ieri ho

      pranzato dal signor Villefort, e non so se abbiate mai notato come

      si pranza male tra i membri del tribunale: si  direbbe  che  hanno

      sempre dei rimorsi."

      "Ah,  per Bacco,  voi disprezzate i pranzi degli altri! Come se si

      pranzasse bene dai vostri ministri..."

      "Sì,  ma non invitiamo la gente  di  "bonton"  almeno;  e  se  non

      fossimo obbligati ad invitare quei miserabili che pensano,  e quel

      che più importa,  che danno buoni voti,  ci guarderemmo come dalla

      peste,  di  pranzare  in  casa nostra;  questo vi prego di volerlo

      credere sul serio."

      "Allora, mio caro, prendete un altro bicchiere di Xeres e un altro

      biscotto."

      "Il vostro vino di Spagna è eccellente;  vedete bene,  che abbiamo

      avuto gran ragione a rappacificare quel paese."

      "E ciò vi procurerà il Toson d'Oro."

      "Credo  che questa mattina abbiate adottato il sistema di nutrirmi

      di fumo."

      "Eh,  questo è quanto diverte più lo  stomaco,  convenitene...  Ma

      ascoltate:  sento  appunto  la  voce di Beauchamp nell'anticamera,

      discuterete  insieme,   e  ciò  vi  farà  attendere  con  maggiore

      pazienza."

      "A proposito di che?"

      "A proposito di giornali."

      "Ah,  caro  amico"  disse Luciano,  con un sovrano disprezzo,  "io

      leggo forse giornali?"

      "Ragione di più, allora discuterete maggiormente..."

      "Il signor Beauchamp!" annunciò il cameriere.

      "Entrate,  entrate,  penna terribile!" disse Alberto  alzandosi  e

      andando incontro al giovane. "Ecco qui Debray che vi detesta senza

      leggervi, almeno a quanto ha detto."

      "Ne ha ben ragione" disse Beauchamp.  "Si comporta come me,  io lo

      critico senza sapere quel che fa... Buon giorno, commendatore!"

      "Ah, lo sapete già?" rispose il segretario particolare, scambiando

      col giornalista una stretta di mano ed un sorriso.

      "Per Bacco!" rispose Beauchamp.

      "E che se ne dice nel mondo?"

      "In qual mondo? Abbiamo molti mondi nell'anno di grazia 1838."

      "Eh, nel mondo critico-politico di cui siete uno dei lyons."

      "Ma, si dice che la cosa è giustissima."

      "Andiamo,  andiamo,  non c'è male" disse Luciano.  "Perché mai non

      siete  uno  dei  nostri,  mio  caro Beauchamp?  Con tanto spirito,

      fareste fortuna in tre o quattro anni."

      "Non aspetto che una cosa per seguire il  vostro  consiglio.  Ora,

      una sola parola a voi, caro Alberto, poiché bisogna bene che lasci

      respirare Luciano: facciamo colazione,  o pranziamo?  Perché io ho

      la Camera che mi aspetta.  Non sono tutte rose,  come vedete,  nel

      nostro mestiere."

      "Faremo soltanto colazione;  non aspettiamo più che due persone, e

      ci metteremo a tavola appena saranno giunte."

      "E chi aspettate?" disse Beauchamp.

      "Un gentiluomo e un diplomatico" rispose Alberto.

      "Allora è affare di due piccole ore per il gentiluomo,  e  di  due

      grandi per il diplomatico;  ritornerò alle frutta. Serbatemi delle

      fragole,  del caffè,  e dei sigari;  mangerò una  costoletta  alla

      Camera."

      "Non ne fate niente,  Beauchamp.  Quando anche il gentiluomo fosse

      un Montmorency,  e  l'altro  uno  dei  primi  diplomatici,  faremo

      colazione  alle  undici  precise;   frattanto  fate  come  Debray:

      assaggiate il mio Xeres, ed i miei biscotti."

      "Andiamo dunque, sia così, resto. Bisogna assolutamente che questa

      mattina mi distragga."

      "Bene,  eccovi come Debray: mi sembra però che quando il Ministero

      è triste l'opposizione debba essere allegra!"

      "Ah, vedete, amico caro, non sapete da che cosa sono minacciato...

      Questa  mattina sentirò un discorso di Danglars,  e questa sera in

      casa di sua moglie una tragedia di un pari di Francia."

      "Capisco, avete bisogno di far provvigione d'ilarità."

      "Non dite dunque male dei discorsi di Danglars, egli vota per voi,

      è dell'opposizione."

      "Ecco,  per Bacco,  dove sta il male: io aspetto che lo mandiate a

      discorrere al Lussemburgo per riderne a mio bell'agio."

      "Caro mio" disse Alberto a Beauchamp, "si vede bene che gli affari

      di  Spagna  sono  accomodati,  questa mattina siete di un'asprezza

      stomachevole.  Ricordatevi dunque che la  cronaca  parigina  porta

      trattative di un matrimonio fra me ed Eugenia Danglars.  Non posso

      dunque,  in coscienza,  lasciarvi parlar male dell'eloquenza di un

      uomo,  che un giorno o l'altro può dirmi: "Signor visconte, sapete

      che assegno in dote due milioni a mia figlia"."

      "Suvvia" disse Beauchamp,  "questo matrimonio non si farà mai.  Il

      Re  ha  potuto  farlo  conte,  ma  non  potrà  mai  farlo diventar

      gentiluomo,   ed  il  conte  de  Morcerf  è   una   spada   troppo

      aristocratica per acconsentire,  per due meschini milioni,  ad una

      cattiva alleanza.  Il visconte de Morcerf non deve sposare che una

      marchesa."

      "Due milioni" rispose Alberto, "sono una bella cosa."

      "Questo  è  il capitale sociale di un teatro dei boulevards,  o di

      una ferrovia dal Giardino delle piante a Rapée."

      "Lasciatelo dire  Morcerf"  riprese  con  noncuranza  Debray,  "ed

      ammogliatevi. Voi sposate la cifra che sta scritta sopra un sacco,

      non  è  vero?  Ebbene!  Che  v'importa?  Meglio su questa cifra un

      blasone di meno ed uno zero di più: avete sette merli nelle vostre

      armi,  ne darete tre a vostra moglie,  e ve ne  resteranno  ancora

      quattro."

      "In  fede  mia,  credo  che abbiate ragione,  Luciano" rispose con

      distrazione Alberto.

      "Eh certamente!  D'altra parte egli è milionario e nobile come  un

      bastardo: cioè, potrebbe esserlo."

      "Zitto!  Non dite questo, Debray" rispose ridendo Beauchamp. "Ecco

      qui Chateau-Renaud che per guarirvi dalla  mania  di  ridurre,  vi

      passerebbe  traverso  il  corpo la spada di Rinaldo di Montalbano,

      suo avolo."

      "Allora  uscirebbe  dalle  regole  dei  duelli"  rispose  Luciano,

      "perché io sono un villano, villanissimo."

      "Bene!" gridò Beauchamp.  "Ecco il Ministero che canta da pastore.

      Eh! come finiremo?"

      "Il signor Chateau-Renaud!  Il signor Massimiliano Morrel!"  disse

      il cameriere, annunziando i due nuovi convitati.

      "Il  numero  e  completo!"  disse  Beauchamp.  "Noi  andiamo a far

      colazione;  perché se  non  erro  aspettavate  solo  due  persone,

      Alberto?"

      "Morrel!" mormorò Alberto, "e chi è costui?"

      Ma  prima  che  avesse terminato,  il signor de Chateau-Renaud bel

      giovane sui trent'anni,  gentiluomo dalla testa ai piedi,  vale  a

      dire,  coll'aspetto  di  un  Guiche  e lo spirito di un Montemart,

      aveva preso Alberto per la mano.

      "Permettetemi  mio  caro"  disse,   "di  presentarvi   il   signor

      Massimiliano  Morrel  capitano  degli  Spahis (specie di cavalieri

      africani),  mio amico,  e di più,  mio  salvatore.  Del  resto  si

      presenta  abbastanza  bene  da  se  stesso:  salutate il mio eroe,

      visconte!"

      E si scostò per presentare questo grande e nobile  giovane,  dalla

      fronte  larga,  dallo  sguardo penetrante,  dai baffi neri,  che i

      nostri lettori ricorderanno di  aver  visto  a  Marsiglia  in  una

      occasione   molto   più  drammatica,   e  che  non  avranno  certo

      dimenticato.

      Una ricca uniforme, metà francese, e metà orientale,  mirabilmente

      portata,  faceva  risaltare  il  suo  largo petto,  la croce della

      Legion d'Onore, e la struttura agile delle sue forme.

      Il giovane ufficiale s'inchinò con  pulita  eleganza;  Morrel  era

      raffinato in tutti i suoi movimenti perché era forte.

      "Signore"  disse  Alberto  con affettuosa cortesia,  "il barone di

      Chateau-Renaud ben sapeva tutto il piacere che  mi  procurava  nel

      farmi  fare  la  vostra conoscenza.  Voi siete uno dei suoi amici,

      signore; siate anche uno dei nostri."

      "Benissimo" disse Chateau-Renaud, "e desidero,  mio caro visconte,

      che all'occasione faccia per voi quel che ha fatto per me."

      "E che ha dunque fatto?" domandò Alberto.

      "Oh, non è il caso di parlarne, il signore esagera."

      "Come!  non è il caso di parlarne? La vita non vale la pena che se

      ne parli?... Davvero c'è troppa filosofia nelle vostre parole, mio

      caro Morrel...  Andrà bene per voi che  esponete  la  vostra  vita

      tutti i giorni, ma per me che l'ho esposta una volta per caso..."

      "Ciò  che  scorgo  di  più chiaro in tutto ciò,  barone,  è che il

      capitano Morrel vi ha salvata la vita."

      "Oh, mio Dio, sì, semplicemente" replicò Chateau-Renaud.

      "E in quale occasione?" domandò Beauchamp.

      "Beauchamp amico mio,  sapete ch'io muoio di fame!" disse  Debray.

      "Non perdetevi dunque in storie."

      "Ebbene,  ma io" disse Beauchamp, "non impedisco che ci mettiamo a

      tavola.., Chateau-Renaud ci racconterà tutto a tavola."

      "Signori" disse Morcerf, "non sono che le dieci e un quarto, e noi

      aspettiamo un altro convitato."

      "Ah, è vero, un diplomatico" riprese Debray.

      "Un diplomatico, o qualche altra cosa,  non so niente: ciò che so,

      è  che  lo  incaricai  di  un'ambasciata  per  conto  mio,  da lui

      disimpegnata con tanta soddisfazione che se  fossi  stato  re,  lo

      avrei  fatto  cavaliere di tutti i miei ordini ad un tempo,  anche

      avessi  avuto  a  mia  disposizione   il   Toson   d'Oro,   e   la

      Giarrettiera."

      "Allora,   poiché  non  si  va  ancora  a  tavola"  disse  Debray,

      "versatevi un altro bicchiere di Xeres come abbiamo fatto  noi,  e

      raccontateci la vostra storia, barone."

      "Voi tutti sapete che mi venne il capriccio di andare in Africa?"

      "Strada tracciatavi dai vostri antenati,  mio caro Chateau-Renaud"

      disse con galanteria Morcerf.

      "Sì,  ma dubito che vi sarete andato,  come loro,  per liberare il

      Santo Sepolcro."

      "Avete  ragione,  Beauchamp"  disse il giovane aristocratico,  "fu

      solo per tirare un colpo di pistola come dilettante...  Il  duello

      mi ripugna, come voi sapete, da quando due testimoni, che io avevo

      scelti  per  accomodare  una contesa,  mi costrinsero a rompere un

      braccio ad uno dei miei migliori amici...  eh,  per Bacco,  a quel

      povero Franz d'Epinay, che voi tutti conoscete."

      "Ah, è vero, vi batteste molto tempo fa... ed a proposito di che?"

      "Il diavolo mi porti se me ne ricordo!" disse Chateau-Renaud.  "Ma

      ciò che mi ricordo perfettamente è che, avendo vergogna di lasciar

      dormire un ingegno come il mio,  ho  voluto  provare  sugli  arabi

      delle  pistole  nuove  di  cui  avevo  avuto dono.  In conseguenza

      m'imbarcai per Orano;  di là passai a Costantina,  e giunsi giusto

      in  tempo  per  veder levare l'assedio.  Mi aggregai alla ritirata

      come gli altri.  Per quarantotto ore sopportai abbastanza bene  la

      pioggia  di  giorno,  e  la neve di notte;  finalmente nella terza

      mattina il cavallo morì di freddo.  Povera bestia!  Abituato  alle

      coperte ed al braciere della scuderia... un cavallo arabo che si è

      trovato spatriato per aver trovato appena dieci gradi di freddo in

      Arabia..."

      "Perciò  volevate  comprare  il mio cavallo inglese" disse Debray,

      "supponendo forse che avrebbe  sopportato  il  freddo  meglio  del

      vostro arabo."

      "Siete  in  errore;  poiché  ho fatto voto di non ritornare più in

      Africa."

      "Voi dunque avete avuto paura?" domandò Beauchamp.

      "In fede mia sì, lo confesso" disse Chateau-Renaud, "e ne ho avuto

      ben donde!  Il mio cavallo dunque era  morto,  io  facevo  la  mia

      strada  a  piedi,  sei  arabi  vennero al galoppo per tagliarmi la

      testa, ne ammazzai due con due colpi del mio fucile, due colle mie

      pistole, ma ne restavano altri due, ed ero disarmato. Uno mi prese

      per i capelli,  per questo ora li porto corti,  non si sa mai  ciò

      che può accadere,  l'altro mi circondò il collo col suo yatagan, e

      già sentivo il freddo acuto del ferro,  quando questo signore  che

      vedete,  caricò  a sua volta contro,  atterrò quello che mi teneva

      per i capelli con un colpo di pistola,  e colla sciabola spaccò la

      testa  a  quello che stava a tagliarmi la gola.  Questo signore si

      era imposto in quel  giorno  l'obbligo  di  salvare  un  uomo,  la

      combinazione  volle  che fossi io: quando diventerò ricco,  voglio

      far fare da Klugmann o da Marochetti una  statua  che  rappresenti

      quell'episodio."

      "Sì" disse sorridendo Morrel,  "era il 5 settembre, l'anniversario

      del giorno in cui mio padre fu miracolosamente salvato. Così,  per

      quanto  è in mio potere,  celebro tutti gli anni questo giorno con

      qualche azione."

      "Eroica,  non è vero?" interruppe  Chateau-Renaud.  "Insomma,  fui

      l'eletto,  ma qui non sta il tutto.  Dopo avermi salvato dal ferro

      mi salvò dal freddo,  dandomi,  non già una metà del suo  mantello

      come fece,  non mi ricordo chi,  ma tutto intero.  Poi dalla fame,

      dividendo con me, indovinate un poco che cosa?..."

      "Un pasticcio di Félix?" chiese Beauchamp.

      "No,  il suo cavallo,  di cui  mangiammo  entrambi  un  pezzo  con

      grandissimo appetito, sebbene fosse un poco duro..."

      "Il cavallo?" domandò ridendo Morcerf.

      "No, il sacrificio" rispose Chateau-Renaud. "Domandate a Debray se

      sacrificherebbe il suo cavallo inglese per un estraneo?"

      "Per un estraneo, no; per un amico potrebbe darsi" rispose Debray.

      "Ed  io pronosticai che sareste divenuto mio amico,  signor conte"

      disse Morrel.  "D'altra parte ho già  avuto  l'onore  di  dirvelo:

      eroismo  o no,  sacrificio o no,  avevo un debito colla sorte,  in

      compenso del favore che altra volta ci aveva fatta."

      "Questa storia a cui Morrel fa allusione,  è una bellissima storia

      e  ve  la  racconterà  un giorno,  quando avrete fatto con lui più

      estesa conoscenza per oggi approvvigioniamo lo stomaco,  e non  la

      memoria. A che ora fate colazione?"

      "Alle dieci e mezzo."

      "Precise?" domandò Debray cavando l'orologio.

      "Oh,  mi  accorderete  cinque  minuti di dilazione" disse Morcerf,

      "poiché io pure aspetto un salvatore."

      "Di chi?"

      "Di me, per Bacco!" rispose Morcerf.  "Credete forse che non possa

      essere salvato come un altro, o che non vi siano che gli arabi che

      tagliano  la  testa?  La  nostra  colazione  è  una  colazione  di

      riconoscenza ed avremo  alla  nostra  tavola,  spero  almeno,  due

      benefattori dell'umanità."

      "E  come  faremo?"  disse  Debray.  "Non abbiamo che un sol premio

      Monthyon..."

      "Ebbene,   verrà  dato  a  qualcuno  che  nulla  abbia  fatto  per

      meritarlo"   disse  Beauchamp.   "In  questo  modo  di  solito  fa

      l'accademia per togliersi da qualunque impaccio."

      "E di dove viene?" domandò Debray.  "Scusate  l'insistenza;  avete

      già,  lo so bene,  risposto a questa domanda, ma molto vagamente e

      perciò posso permettermi di farvela una seconda volta"

      "In verità" disse Alberto,  "non lo so.  Quando l'ho invitato  tre

      mesi fa era a Roma.  Ma da quel tempo, chi può dire il viaggio che

      ha fatto?"

      "E lo credete capace di essere puntuale?"

      "Lo credo capace di tutto" rispose Morcerf.

      "Fate attenzione che,  compresi i  minuti  di  dilazione,  non  ne

      mancano che dieci."

      "Ebbene, ne approfitterò per dirvi una parola sul mio convitato."

      "Scusate" disse Beauchamp, "vi sarà materia per un articolo in ciò

      che siete per narrare?"

      "Sì, certamente" disse Morcerf, "ed anche dei più curiosi."

      "Allora  raccontate,  poiché  vedo  bene che non potrò andare alla

      Camera, e bisogna che ne abbia un vantaggio."

      "Ero a Roma nell'ultimo carnevale."

      "Questo lo sappiamo già" disse Beauchamp.

      "Ma ciò che non sapete è che fui rapito dai briganti."

      "Non vi sono più briganti" disse Debray.

      "Ve ne sono,  e ve ne sono anche  degli  orridi  cioè  ammirabili,

      mentre ne ho trovati dei belli, ma da far paura."

      "Vediamo,  mio  caro  Alberto"  disse  Debray,  "confessate che il

      vostro cuoco è in ritardo,  che le ostriche non sono ancora giunte

      da  Marennes  o  da  Ostenda,  e che come la signora di Maintenon,

      volete sostituire un racconto ad  un  piatto.  Ditelo,  mio  caro,

      siamo  abbastanza  di  buona  compagnia  per  perdonarvelo,  e per

      ascoltare la vostra storia, purché sembri favolosa."

      "Ed io vi dico,  per quanto possa comparir  favolosa,  che  ve  la

      garantisco per vera dal principio alla fine.  I briganti dunque mi

      avevano condotto in un luogo molto triste,  chiamato le  catacombe

      di San Sebastiano."

      "Le  conosco"  disse  Chateau-Renaud,  "per  poco  non vi presi le

      febbri".

      "Ed io ho fatto ancora di più: le ebbi realmente.  Mi fu detto che

      ero prigioniero,  salvo il riscatto,  una bagattella,  quattromila

      scudi romani,  circa ventiseimila lire francesi.  Disgraziatamente

      non  ne  avevo  più  che  millecinquecento;  ero alla fine del mio

      viaggio, e il mio credito era esaurito. Scrissi a Franz.  Ah,  per

      Bacco!  Franz  era  là,  e  potete  chiedergli  se  mento  di  una

      virgola... Scrissi dunque a Franz che se non giungeva alle sei del

      mattino coi quattro mila scudi,  alle sei  e  dieci  minuti  sarei

      passato  all'eterna  gloria,  e Luigi Vampa,  questo è il nome del

      capo  dei  briganti,  vi  prego  di  crederlo,  avrebbe  mantenuta

      scrupolosamente la sua parola."

      "Ma  Franz  sarà  giunto  coi quattromila scudi..." disse Chateau-

      Renaud. "Che diavolo! non può trovarsi in impaccio per quattromila

      scudi chi porta  il  nome  di  Franz  d'Epinay  o  di  Alberto  de

      Morcerf!"

      "No,  ma  egli  giunse  solamente e semplicemente accompagnato dal

      convitato che vi ho annunziato, e che spero potervi presentare."

      "E che! è dunque Ercole che uccide Caco questo signore?  un Perseo

      che libera Andromeda?"

      "No, è un uomo circa della mia corporatura."

      "Armato fino ai denti?"

      "Non aveva neppure un ferro di calzetta."

      "Dunque contrattò il vostro riscatto?"

      "Disse due parole all'orecchio del capo ed io fui liberato."

      "Anzi   gli   fecero  perfino  le  scuse  d'avervi  rapito"  disse

      Beauchamp.

      "Precisamente" rispose Morcerf.

      "Ma che! era dunque l'Orlando d'Ariosto quest'uomo?"

      "No, era semplicemente il conte di Montecristo."

      "Non c'è nessuno che si chiami così" disse Debray.

      "Non  credo"  soggiunse  Chateau-Renaud  colla  presenza   d'animo

      dell'uomo  che  tiene  sulla  punta delle dita tutte le genealogie

      delle famiglie nobili dell'Europa, "ci sia chi conosca un conte di

      Montecristo..."

      "E' forse un qualche casato proveniente dalla Terra  Santa"  disse

      Beauchamp:  "uno  dei  suoi  avi avrà posseduto il Calvario,  come

      Montemart, il Mar Morto."

      "Scusate"  disse  Massimiliano,  "io  credo  di  potervi  togliere

      d'impaccio,  signori:  Montecristo è una piccola isola,  di cui ho

      spesso sentito parlare dai marinai  impiegati  da  mio  padre,  un

      grano di sabbia in mezzo al Mediterraneo, un atomo nell'infinito."

      "Ed è vero,  signore" disse Alberto.  "Ebbene,  di questo grano di

      sabbia, di questo atomo è signore e re colui di cui vi parlo; egli

      avrà comprato il diploma di conte in qualche parte della Toscana."

      "E' dunque ricco il vostro conte?"

      "In fede mia lo credo!"

      "Ma ciò deve vedersi mi sembra..."

      "Avete letto le Mille e una notte?"

      "Per Bacco! bella domanda!"

      "Le persone che vi appaiono sono ricche o povere?  i loro grani di

      frumento   sono  rubini  o  diamanti?   Essi  hanno  l'aspetto  di

      miserabili pescatori,  non è vero?  Voi li trattate come  tali,  e

      subito  vi  aprono  qualche  caverna  misteriosa,  e vi trovate un

      tesoro da comprare le Indie.  Il mio conte di Montecristo è uno di

      quei  pescatori;  ha  perfino  un nome tolto da quella favola,  si

      chiama Sindbad il marinaio, e possiede una caverna piena d'oro."

      "L'avete vista" domandò Beauchamp.

      "Io no; Franz sì.  Ma zitti!  Non bisogna dire una parola di tutto

      ciò  davanti  a  lui.  Franz vi discese cogli occhi bendati,  e fu

      servito da uomini muti,  e  da  donne,  in  paragone  delle  quali

      Cleopatra non era,  a quanto pare, che una donna volgare. Soltanto

      delle donne egli non è ben sicuro,  giacché esse non apparvero che

      dopo  aver  masticato  dell'hashish di modo che potrebbe darsi che

      quelle che ha prese per donne,  non fossero state  banalmente  che

      statue."

      I  giovani  amici  guardarono  Morcerf  con uno sguardo che voleva

      dire: "Mio caro, diventate insensato o vi burlate di noi?".

      "Però" disse Morrel pensieroso,  "ho inteso raccontare anch'io  da

      un  vecchio marinaio,  chiamato Penelon,  qualche cosa di simile a

      ciò che dice il signor di Morcerf."

      "Ah" fece Alberto,  "sono ben fortunato che Morrel  venga  in  mio

      aiuto.  Vi dispiace, non è vero, ch'egli getti un gomitolo di filo

      nel mio labirinto?"

      "Perdonate, mio caro, ma ci raccontate cose tanto inverosimili..."

      "Ah, per Bacco! Perché i vostri ambasciatori, i vostri consoli non

      ve ne parlano?  Essi non ne hanno il tempo;  hanno troppo da  fare

      nel molestare i loro compatrioti che viaggiano."

      "Ah,  ecco  che  v'inquietate,  e ve la prendete coi nostri poveri

      diplomatici.  Eh,  mio Dio,  con che volete che vi proteggano?  La

      Camera  corrode ogni giorno i loro stipendi,  ed ora è al punto di

      non trovarne più. Volete diventare ambasciatore?  Vi farò nominare

      a Costantinopoli."

      "No,  perché  il Sultano alla prima nota in favore di Mehemet-Alì,

      mi manderebbe il cordone, e i miei segretari mi strangolerebbero."

      "Vedete bene!" disse Debray.

      "Sì, tutto ciò non toglie che esista il mio conte di Montecristo!"

      "Per Bacco, tutti gli uomini esistono, bel miracolo!"

      "Tutti gli uomini esistono, ma non in simili condizioni. Tutti gli

      uomini  non  hanno  schiavi,  gallerie  principesche,   armi  alla

      Casauba, cavalli di seimila franchi l'uno, e concubine greche."

      "L'avete vista la concubina greca?"

      "Sì,  l'ho vista ed ascoltata; vista al teatro Valle, ascoltata un

      giorno che facevo colazione dal conte."

      "Il vostro uomo straordinario dunque mangia?"

      "Certo che mangia!  Ma tanto poco,  che non merita parlarne."  "Si

      scoprirà poi che è un vampiro..."

      "Ridete,  se volete,  questa era l'opinione della contessa G.  che

      come voi sapete, ha conosciuto lord Ruthwen."

      "Ah, bene!" disse Beauchamp. "Ecco per un giornalista lo scoop del

      famoso serpente di mare del "Constitutionnel": un vampiro,  niente

      meno!"

      "Occhio rossiccio, la cui pupilla si dilata e restringe a volontà"

      disse  Debray,  "volto  ossuto  e scarno,  fronte spaziosa,  tinta

      livida,  barba nera,  denti bianchi  ed  acuti,  compitezza  tutta

      particolare."

      "Ebbene, è proprio così, Luciano" disse Morcerf, "i connotati sono

      riportati a puntino.  Sì, compitezza acuta ed incisiva. Quest'uomo

      spesso mi ha fatto fremere,  e particolarmente un giorno,  fra gli

      altri,  che  guardavamo  insieme  una  esecuzione,  ho  creduto di

      svenire, molto più nel vederlo e sentirlo ragionare freddamente su

      tutti i supplizi della terra,  che guardare il carnefice  eseguire

      il suo compito, e sentire le grida del condannato."

      "E non vi ha condotto fra le rovine del Colosseo per succhiarvi il

      sangue,  Morcerf?" disse Beauchamp. "Ovvero, dopo avervi liberato,

      non vi ha fatto firmare qualche pergamena color di fuoco, in virtù

      della quale gli cediate la vostra anima?"

      "Scherzate! scherzate quanto volete, signori!" disse Morcerf punto

      sul vivo.  "Quando osservo  voialtri  bei  parigini,  abituati  al

      Bastione di Gand, passeggiatori del Bois de Boulogne, e mi ricordo

      di quest'uomo, mi pare che non siamo della stessa specie."

      "Me ne vanto" disse Beauchamp.

      "Il vostro conte di Montecristo" soggiunse Chateau-Renaud, "è però

      sempre un galantuomo nelle ore d'ozio, salvo le sue piccole intese

      coi banditi italiani..."

      "Ma se non vi sono banditi italiani!" soggiunse Debray.

      "Non vi sono vampiri!" disse Beauchamp.

      "Non esiste il conte di Montecristo!" riprese Debray.  "Ascoltate,

      caro Alberto, suonano le dieci e mezzo."

      "Confessate  che  avete  veduto  un  fantasma,  e  andiamo  a  far

      colazione" disse Beauchamp.

      Ma  la  vibrazione dell'orologio a pendolo non era ancora estinta,

      quando la porta si aprì, e Germano annunziò:

      "Sua Eccellenza il conte di Montecristo!"

      Tutti gli uditori fecero loro malgrado un movimento  di  sorpresa.

      Alberto stesso non poté evitare una commozione momentanea.

      Non   era   stata  udita   carrozza  sulla  strada,    passi

      nell'anticamera;  la porta stessa si era aperta senza  rumore.  Il

      conte comparve sulla soglia,  vestito colla più grande semplicità,

      ed il lyon più esigente non avrebbe saputo trovarvi la più piccola

      mancanza.

      Tutto era di un gusto squisito,  tutto usciva dalle mani  dei  più

      eleganti fornitori: abiti, cappello, biancheria.

      Sembrava avere appena trentacinque anni, ma ciò che sorprese tutti

      fu  l'estrema  rassomiglianza  col  ritratto  che  ne  aveva fatto

      Debray.  Il conte avanzò sorridendo in mezzo al  salotto,  e  andò

      direttamente  da Alberto,  che venendogli incontro gli offerse con

      trasporto la mano.

      "L'esattezza" disse Montecristo,  "è la  gentilezza  dei  re,  per

      quanto ha preteso,  io credo, uno dei vostri sovrani. Ma qualunque

      sia  la  loro  buona  volontà,   non  è  però  sempre  quella  dei

      viaggiatori.  Però io spero,  mio caro visconte, che mi scuserete,

      in grazia della mia buona volontà,  i due o tre secondi di ritardo

      al  nostro  appuntamento;  cinquecento  leghe  non  si fanno senza

      qualche contrattempo, particolarmente in Francia ove è proibito, a

      quanto sembra, frustare i postiglioni."

      "Signor conte" rispose Alberto,  "stavo proprio preannunciando  la

      vostra  visita  agli  amici,  da me riuniti per la promessa che mi

      faceste e che ho l'onore di presentarvi.  Questi signori sono,  il

      conte di Chateau-Renaud,  la cui nobiltà risale ai dodici Pari,  i

      cui antenati  hanno  avuto  posto  alla  Tavola  rotonda;  Luciano

      Debray,   segretario   particolare   del   ministro  dell'interno;

      Beauchamp, terribile giornalista, il terrore del governo francese,

      e di cui forse,  ad onta della sua celebrità,  non  avrete  inteso

      parlare  in Italia,  visto che il suo giornale non vi può entrare;

      finalmente Massimiliano Morrel, capitano degli Spahis."

      A  questo  nome,   il  conte,   che  fino  allora  aveva  salutato

      cortesemente,  ma  con  una  freddezza  ed una impassibilità tutta

      inglese,  fece suo malgrado un passo in  avanti,  ed  una  leggera

      tinta vermiglia passò come un lampo sulle sue pallide guance.

      "Il  signore porta l'uniforme dei nuovi vincitori francesi" disse;

      "è una bella uniforme!"

      Non sarebbe stato possibile poter dire quale fosse  il  sentimento

      che  dava  alla  voce  del  conte una così profonda vibrazione,  e

      faceva brillare suo malgrado l'occhio tanto bello,  tanto sereno e

      limpido, quando non aveva alcun motivo per velarlo.

      "Voi non avevate mai visto i nostri africani, signor conte?" disse

      Alberto.

      "Giammai!" replicò il conte, ritornato perfettamente padrone di se

      stesso.

      "Ebbene,  signor  conte,  sotto quest'uniforme batte uno dei cuori

      più coraggiosi e più nobili dell'esercito..."

      "Oh, signor conte..." interruppe Morrel.

      "Lasciatemi dire,  capitano...  Non  ha  pari"  continuò  Alberto.

      "Abbiamo appreso un tratto così eroico del signore, che quantunque

      io  lo  veda  oggi  per  la  prima  volta,  pretendo  il favore di

      potervelo presentare come mio amico."

      E si sarebbe potuto,  anche a queste parole,  scorgere  nel  conte

      quello strano sguardo indagatore,  quel rossore fuggitivo,  e quel

      leggero tremore della palpebra, che in lui tradiva l'emozione.

      "Ah,  il signore ha un  cuore  nobile?"  disse  il  conte.  "Tanto

      meglio!"

      Questa  specie  di  esclamazione  che  corrispondeva  piuttosto al

      pensiero del conte, che al discorso di Alberto, sorprese tutti, ma

      particolarmente Morrel,  che guardò il conte  di  Montecristo  con

      stupore.

      Ma  il tono della voce era stato così dolce e per così dire soave,

      che,  per quanto strana fosse  apparsa  questa  esclamazione,  non

      c'era ragione in alcun modo di offendersene.

      "Perché dunque ne dubiterebbe?" disse Beauchamp a Chateau-Renaud.

      "In verità" rispose questi, che, coll'abitudine al gran mondo e la

      chiarezza del colpo d'occhio aristocratico,  aveva riconosciuto in

      Montecristo molte qualità, "in verità Alberto non ci ha ingannati,

      è un personaggio singolare questo conte... Che ne dite, Morrel?"

      "In fede mia" rispose  questi,  "ha  l'occhio  franco  e  la  voce

      simpatica,  di  modo che mi piace malgrado la bizzarra riflessione

      fatta sul mio conto."

      "Signori" disse Alberto,  "Germano mi avverte che la  colazione  è

      pronta. Mio caro conte, permettete che vi mostri la strada."

      Passarono silenziosamente nella sala da pranzo, e ciascuno si mise

      al suo posto.

      "Signori"  disse  il conte sedendosi,  "permettete una confessione

      che sarà  la  mia  scusa  per  tutte  le  sconvenienze  che  potrò

      commettere: sono forestiero,  ma forestiero a tal punto che questa

      è la prima volta che vengo a Parigi.  La vita francese mi è dunque

      perfettamente  sconosciuta,  non  avendo  fino  ad ora seguita che

      l'orientale, la più antitetica alle buone tradizioni parigine.  Vi

      prego dunque di scusarmi se troverete in me qualche cosa di troppo

      turco, o di troppo arabo. Detto ciò, signori, facciamo colazione."

      "Dal  modo che ha detto tutto ciò" mormorò Beauchamp,  "si capisce

      che è un gran signore!"

      "Un gran signore straniero" soggiunse Debray.

      "Un signore cosmopolita" disse Chateau-Renaud.

      Ognuno ricorderà che il conte era un convitato sobrio.

      Alberto osservò la cosa,  e manifestò il timore che non  avesse  a

      dispiacergli  la vita parigina fin dal principio,  nella parte più

      materiale, è vero, ma nello stesso tempo più necessaria.

      "Mio caro conte" disse,  "voi mi vedete colpito da un timore:  che

      la  cucina  della  rue  Helder  non abbia a piacervi quanto quella

      della piazza di Spagna.  Avrei dovuto chiedervi  ciò  che  più  vi

      gusta, e farvi preparare qualche piatto di vostra fantasia."

      "Se  mi  conosceste  di più" rispose sorridendo il conte,  "non vi

      preoccupereste di una cosa quasi umiliante per un viaggiatore come

      me,  che ha successivamente vissuto con maccheroni a  Napoli,  con

      polenta a Milano,  con olla podrida a Valenza, con riso asciutto a

      Costantinopoli,  con karrick nelle Indie,  e con nidi  di  rondini

      nella Cina. Non c'è una cucina particolare per un cosmopolita come

      me:  mangio di tutto ed in ogni luogo;  solo mangio poco,  ed oggi

      che mi rimproverate la mia sobrietà,  sono in una  delle  giornate

      del  mio  massimo  appetito,  perché  da  ieri  mattina non ho più

      mangiato."

      "Come da  ieri  mattina?"  esclamarono  i  convitati.  "Non  avete

      mangiato da ventisei ore?"

      "No"  rispose il conte.  "Fui obbligato a deviare dalla mia strada

      per portarmi a Nimes a prendere alcune informazioni,  di modo  che

      ero un poco in ritardo, e non ho voluto fermarmi."

      "Ma avrete mangiato in carrozza?!" disse Morcerf.

      "No,  ho dormito,  come mi succede quando mi annoio senza avere il

      coraggio di distrarmi,  o quando ho fame  senza  avere  voglia  di

      mangiare."

      "Ma dunque comandate al sonno?" domandò Morrel.

      "Press'a poco."

      "Avete una ricetta per questo?"

      "Infallibile."

      "Sarebbe  eccellente  per noi africani,  che non sempre abbiamo da

      mangiare, e sempre difficilmente da bere..." disse Morrel.

      "Sì" disse il conte,  "disgraziatamente la mia ricetta,  buona per

      un uomo come me,  che conduce una vita eccezionale,  sarebbe molto

      pericolosa applicata ad un esercito,  che non si sveglierebbe più,

      quando se ne avesse bisogno."

      "Si può sapere che è questa ricetta?" chiese Debray.

      "Oh,  mio Dio, sì" disse il conte, "non ne faccio alcun segreto; è

      una mistura di eccellente oppio;  io stesso sono stato a cercare a

      Canton, per esser certo di averlo puro, e del migliore hashish che

      si  raccolga  in  Oriente,  cioè  fra  il  Tigri  e l'Eufrate.  Si

      riuniscono questi due ingredienti in  porzioni  uguali,  e  se  ne

      formano delle specie di pillole che s'inghiottono quando uno ne ha

      bisogno.  L'effetto  si produce dieci minuti dopo.  Domandatene al

      barone Franz d'Epinay, che credo un giorno ne abbia gustato."

      "Sì" rispose Morcerf,  "me ne ha accennato,  anzi ne ha conservata

      grata memoria."

      "Ma"  disse  Beauchamp,  che  nella sua qualità di giornalista era

      molto incredulo, "portate sempre questa droga con voi?"

      "Sempre!" rispose il conte di Montecristo.

      "Sarei indiscreto se vi  domandassi  di  vedere  queste  pillole?"

      continuò  Beauchamp,  nella  speranza  di cogliere lo straniero in

      fallo.

      "No, signore..." rispose il conte.

      E cavò di tasca una meravigliosa bomboniera  scavata  in  un  solo

      smeraldo,  e  chiusa  con  un  fermaglio  d'oro,  che,  aprendosi,

      lasciava uscire una pillola di color verdastro, della grossezza di

      un pisello.

      Questa pillola aveva un odore acre e penetrante,  e  ve  ne  erano

      quattro  o  cinque  nella  cavità  dello  smeraldo  che  ne poteva

      contenere circa una dozzina.  La bomboniera  fece  il  giro  della

      tavola, ed i convitati se la facevano passare più per esaminare la

      magnificenza dell'ammirabile smeraldo,  che per guardare e fiutare

      le pillole che conteneva.

      "E' forse il  vostro  cuoco  che  vi  prepara  questo  miscuglio?"

      domandò Beauchamp.

      "No, signore" disse il conte di Montecristo, "non abbandono i miei

      piaceri  all'arbitrio  di  mani  inesperte;  sono  abbastanza buon

      chimico per prepararmi da solo queste pillole."

      "Questo è uno smeraldo ammirabile,  ed è il più grosso  che  abbia

      mai  visto,  quantunque  mia madre abbia qualche gioia di famiglia

      molto notevole..." disse Chateau-Renaud.

      "Di questi ne avevo tre" soggiunse il conte di  Montecristo:  "uno

      lo  regalai  al  Gran  Visir,  che ne ha adornata la sua sciabola;

      l'altro a persona che non posso nominare;  il terzo  l'ho  serbato

      per me,  e l'ho fatto scavare gli ho tolto metà del suo valore, ma

      l'ho reso più adatto all'uso al quale l'ho destinato."

      Ciascuno guardò il conte di Montecristo  con  meraviglia;  parlava

      con tanta semplicità,  che faceva ritenere vero ciò che diceva,  o

      pazzo:  lo  smeraldo  nelle  sue  mani  provava  però   la   prima

      supposizione.

      "Che  vi  hanno  dato  in cambio le persone cui avete fatto simili

      doni?" chiese Debray.

      "Il Gran Visir mi concesse la libertà di  una  donna"  rispose  il

      conte,  "l'altra  persona la vita di un uomo.  Di modo che per due

      volte sono stato possente,  come fossi  nato  sui  gradini  di  un

      trono."

      "Forse  fu Peppino che liberaste,  non è vero?" gridò Morcerf,  "a

      lui applicaste il vostro diritto di grazia?"

      "Può darsi" disse Montecristo, sorridendo.

      "Signor conte"  disse  Morcerf,  "non  potete  farvi  un'idea  del

      piacere  che provo nel sentirvi parlare in tal modo.  Vi avevo già

      dipinto ai miei amici come un uomo favoloso,  come un  mago  delle

      Mille e una notte,  come uno stregone del medio evo, ma i parigini

      sono persone talmente sottili  nei  paradossi,  che  prendono  per

      capricci dell'immaginazione le verità più incontrastabili,  quando

      non sono abituali. Per esempio, ecco Debray che legge, e Beauchamp

      che stampa tutti  i  giorni:  è  stato  fermato  e  spogliato  sui

      bastioni  qualche  membro  del Jockey Club in ritardo,  sono state

      assassinate quattro persone sulla rue Saint-Denis o  nel  Faubourg

      Saint-Germain,  sono stati arrestati quattro,  dieci, venti ladri,

      sia in un caffè sul Bastione del Tempio, sia alle Terme di Giulio.

      E negano l'esistenza dei banditi  nelle  Maremme,  nella  Campagna

      romana,  e  nelle  paludi pontine.  Dite dunque voi stesso,  ve ne

      prego,  signor conte,  che sono stato preso da questi  banditi,  e

      che,  senza la vostra generosa intercessione,  io oggi aspetterei,

      secondo  tutte  le  probabilità,   la  resurrezione  finale  nelle

      catacombe  di  San  Sebastiano,  invece  di offrire loro colazione

      nella mia piccola ed indegna casa in rue Helder."

      "Mi avete promesso di non parlarmi più di questa miseria."

      "Non sono io che vi ho fatto questa promessa,  signor conte" gridò

      Morcerf,  "sarà  stato  qualche  altro  cui  avete  reso un simile

      favore, e che ora confondete con me. Parliamone anzi, ve ne prego;

      perché se vi risolvete a parlare  di  questo  episodio,  non  solo

      ridirete alcune cose che so, ma molte altre che non so."

      "Mi sembra che in tutto questo affare" soggiunse il conte ridendo,

      "abbiate  sostenuta una parte di troppa importanza,  per sapere al

      par mio tutto ciò che è accaduto."

      "Volete promettermi che,  se dico tutto quel  che  so,  mi  direte

      tutto quel che non so?"

      "E' troppo giusto" rispose Montecristo.

      "Ebbene" soggiunse Morcerf,  "dovesse il mio amor proprio di nuovo

      soffrirne, mi sono creduto per tre giorni oggetto delle civetterie

      di una maschera che ritenevo discendente  delle  Tullie,  o  delle

      Poppee,  mentre  ero semplicemente oggetto delle frascherie di una

      contadina;  e notate bene che dico contadina per non dir  villana.

      Poi  come  un  gonzo  ho scambiato un giovane bandito sui quindici

      sedici anni per quella contadina,  fino a deporre un  bacio  sulla

      sua  casta spalla.  Lui,  in quel momento,  mi ha messo le pistole

      alla gola e coll'aiuto di  altri  sette  o  otto  banditi,  mi  ha

      condotto  o  piuttosto trascinato nel fondo delle catacombe di San

      Sebastiano. Qui trovai un capo di banditi molto letterato, in fede

      mia, che leggeva i Commentari di Giulio Cesare, e che si è degnato

      d'interrompere la lettura per dirmi che se l'indomani alle sei del

      mattino non avessi versati quattromila scudi nella sua cassa, alle

      sei e un quarto avrei cessato di vivere. La lettera esiste, essa è

      nelle mani di Franz, firmata da me,  con poscritto di mastro Luigi

      Vampa.  Se  ne  dubitate,  scriverò a Franz che potrà mostrarvi le

      firme.  Ecco ciò che so.  Quello che mi resta a sapere è come mai,

      voi  signor conte,  siate giunto ad incutere ai banditi di Roma un

      così gran rispetto,  essi che nulla rispettano.  Vi  confesso  che

      Franz e io ne fummo pieni d'ammirazione."

      "Niente di più semplice,  signore" rispose il conte. "Conoscevo il

      famoso Vampa da più di  dieci  anni.  Quand'era  ancor  giovane  e

      pastore,  un giorno gli regalai non mi sovviene qual moneta d'oro,

      perché mi indicò la strada ed egli,  per non aver niente del  mio,

      mi dette in cambio un pugnale intagliato colle sue mani, e che voi

      forse  avrete notato nella mia collezione d'armi.  Col tempo,  sia

      che egli dimenticasse questo scambio di piccoli regali, che doveva

      mantenere l'amicizia fra noi,  sia che non mi avesse riconosciuto,

      tentò  di  rapirmi;  ma io invece catturai lui con una dozzina dei

      suoi compagni.  Allora potevo abbandonarlo alla  giustizia  romana

      che  è  spiccia,  e  si  sarebbe  ancora  affrettata  di più a suo

      riguardo ma non lo feci: lo rimandai con tutti i suoi."

      "A  condizione  che  non  peccassero  più"  disse  il  giornalista

      ridendo.    "Vedo    con    piacere   ch'essi   hanno   mantenuta.

      scrupolosamente la parola."

      "No, signore" rispose Montecristo, "a condizione che rispettassero

      sempre me ed i miei amici."

      "Alla  buon'ora!"  gridò  Chateau-Renaud,   "ecco  il  primo  uomo

      coraggioso   da   cui  sento  predicare  lealmente  e  brutalmente

      l'egoismo, ciò è bellissimo, bravo!, signor conte."

      "Almeno ciò è molto franco" disse Morrel,  "ma sono sicuro che  il

      signor  conte non si è pentito di avere una volta mancato a questi

      principi, esposti in modo così assoluto."

      "Ed in qual modo ho mancato ai miei  principi,  signore?"  domandò

      Montecristo,  che  ogni  tanto  non  poteva  esimersi dal guardare

      Massimiliano con  tanta  attenzione,  che  già  due  o  tre  volte

      l'ardito giovane era stato costretto ad abbassare gli occhi,  allo

      sguardo limpido e chiaro del conte.

      "Mi sembra" rispose Morrel,  "che liberando il signor  de  Morcerf

      che non conoscevate voi servivate al prossimo, ed alla società..."

      "Di cui egli fa il più bell'ornamento" disse con gravità Beauchamp

      vuotando in un sol fiato un bicchiere di champagne.

      "Signor conte" gridò Morcerf,  "eccovi preso dal ragionamento, voi

      uno dei più aspri logici che io conosca.  E quanto prima  vi  sarà

      dimostrato che invece d'essere un egoista, siete un altruista. Ah,

      voi  vi  spacciate  per orientale,  levantino,  maltese,  indiano,

      cinese,  selvaggio,  vi chiamate Montecristo per nome di famiglia,

      Sindbad  il  marinaio  per  nome di battesimo ed ecco che il primo

      giorno che mettete piede a  Parigi,  già  possedete  il  più  gran

      difetto della nostra eccentricità parigina, vale a dire usurpate i

      vizi che non avete!"

      "Mio caro visconte" disse Montecristo,  "non vedo in tutto ciò che

      ho detto o fatto,  una sola parola che possa meritarmi  per  parte

      vostra  e  di  questi  signori,  l'elogio  che ricevo.  Voi non mi

      eravate estraneo, poiché vi avevo offerta una colazione,  vi avevo

      prestata  per otto giorni la mia carrozza,  avevamo veduto assieme

      passare le maschere per il Corso,  e perché avevamo guardato dalla

      stessa  finestra  della piazza del Popolo quella esecuzione che vi

      fece tanta impressione che  quasi  sveniste.  Ora,  io  domando  a

      questi signori, potevo lasciare il mio ospite nelle mani di quegli

      spaventosi  banditi,  come  voi  li  chiamate?  D'altra parte,  lo

      sapete, avevo nel salvarvi un secondo fine,  quello di servirmi di

      voi  per introdurmi nella società di Parigi quando fossi venuto in

      Francia.   Per  qualche  tempo  avete  potuto  considerare  questa

      risoluzione come un disegno vago ed incerto; ma oggi, lo vedete, è

      una bella e buona realtà, alla quale bisogna che vi sottomettiate,

      sotto pena di mancare alla vostra parola."

      "Ed  io  la manterrò" disse Morcerf,  "ma temo che presto vi cadrà

      ogni  illusione,   mio  caro  conte,   voi,   avvezzo  ai   luoghi

      d'avventure, agli avvenimenti pittoreschi ai fantastici orizzonti.

      Presso noi non vi accadrà il più piccolo episodio di quelli cui la

      vita fantastica vi ha abituato. Il nostro Chimboraco è Montmartre,

      il  nostro Himalaya è il monte Valérien,  il nostro Gran Deserto è

      la pianura di Grenelle.  Noi abbiamo dei  ladri  ed  anche  molti,

      quantunque  non  ve ne siano tanti quanti si dice;  ma essi temono

      ugualmente la più piccola spia come il più gran signore. Infine la

      Francia è un  paese  così  prosaico,  e  Parigi  una  città  tanto

      incivilita, che non troverete cercando per tutti gli ottantacinque

      nostri dipartimenti (dico ottantacinque dipartimenti,  perché, ben

      inteso,  separo la Corsica dalla Francia) che  non  troverete  una

      sola  montagna  in  cui  non  vi sia un telegrafo,  la più piccola

      grotta un poco oscura,  nella quale un commissario di polizia  non

      abbia  fatto  porre  un  becco a gas.  Non vi è dunque che un solo

      favore che posso rendervi,  mio caro conte,  e per questo mi metto

      interamente a vostra disposizione,  ed è di presentarvi ovunque, e

      farvi presentare dai miei amici, benché voi per questo non abbiate

      bisogno d'alcuno: col vostro nome, la vostra fortuna, ed il vostro

      spirito"  (Montecristo  s'inchinò  con  un   sorriso   leggermente

      ironico),  "ognuno si presenta ovunque da se stesso,  ed ovunque è

      ben ricevuto.  In realtà dunque non posso essere utile per voi che

      ad  una  cosa  sola:  se  l'abitudine  della vita parigina,  se la

      esperienza dei nostri usi,  se  la  conoscenza  dei  nostri  bazar

      possono  raccomandarmi  a voi,  mi metto a vostra disposizione per

      trovarvi una conveniente abitazione.  Non oso  proporvi  di  farvi

      parte  del mio alloggio,  come ho partecipato del vostro a Roma...

      Non professo l'egoismo,  ma sono egoista per eccellenza...  perché

      il  mio  alloggio  non  potrebbe  contenere,   oltre  me,  neppure

      un'ombra... a meno che non fosse quella di una donna."

      "Ah" fece il conte,  "ecco una riserva del tutto matrimoniale: voi

      infatti  a  Roma mi avete detto qualche parola di un matrimonio in

      trattativa; debbo congratularmi per la vostra prossima felicità?"

      "La cosa è sempre allo stato di progetto, signor conte."

      "E chi dice progetto" soggiunse Debray, "vuol dire eventualità."

      "No, no, mio padre si è impegnato, e spero fra poco di presentarvi

      se non mia moglie,  almeno la mia fidanzata,  la signorina Eugenia

      Danglars."

      "Eugenia Danglars" riprese Montecristo,  "aspettate dunque...  Suo

      padre non è il barone Danglars?"

      "Sì" rispose Morcerf, "ma barone di nuova formazione."

      "Oh, che importa!" rispose Montecristo, "se ha reso allo Stato dei

      servigi che gli abbiano meritata questa distinzione."

      "Servigi enormi!" disse Beauchamp. "Quantunque liberale nell'anima

      nel 1829 completò un prestito di sei milioni a Carlo Decimo che lo

      ha, penso io,  fatto barone e cavaliere della Legione d'Onore,  di

      modo  che egli porta la decorazione non al taschino del giubbetto,

      come si potrebbe credere, ma all'occhiello dell'abito!"

      "Ah" disse Morcerf ridendo,  "Beauchamp,  riserbate questi  frizzi

      per inserirli sul "Corsaire" e sul "Charivari", ma in mia presenza

      risparmiate il mio futuro suocero."

      Quindi volgendosi a Montecristo:

      "Ma  voi  poco  fa  ne  pronunciaste il nome come se conosceste il

      barone?"

      "Non  lo   conosco"   disse   negligentemente   Montecristo,   "ma

      probabilmente  non  tarderò molto a fare la sua conoscenza,  visto

      che ho dei crediti aperti su lui dalla casa Richard  e  Blount  di

      Londra, Arstein e Escheles di Vienna, Thomson e French di Roma."

      Pronunciando questi due ultimi nomi, Montecristo guardò colla coda

      dell'occhio Massimiliano Morrel.

      Se  lo  straniero  aveva  calcolato  di  produrre un effetto sopra

      Massimiliano, non si era ingannato.

      Massimiliano trasalì come se avesse ricevuta una scossa elettrica.

      "Thomson e French!" disse. "Conoscete questa casa, signore?"

      "Sono i miei banchieri nella capitale del mondo cristiano" rispose

      tranquillamente il conte. "Posso esservi utile con loro?"

      "Ah, signore, voi potreste aiutarmi, forse, in certe ricerche, che

      fino ad oggi sono state infruttuose. In altro tempo questa casa ha

      reso un grandissimo favore alla nostra,  e non so  perché,  ma  ha

      sempre negato di avercelo reso."

      "Sono ai vostri ordini..." rispose Montecristo, inchinandosi.

      "Ma  noi"  disse  Morcerf,  "ci  siamo  allontanati  per  Danglars

      dall'argomento della conversazione.  Si trattava  di  trovare  una

      casa   conveniente  al  conte  di  Montecristo.   Andiamo  signori

      orizzontiamoci per averne un'idea: dove alloggeremo  questo  nuovo

      ospite della grande Parigi?"

      "Nel  Faubourg  Saint-Germain"  disse Chateau-Renaud,  "il signore

      troverà  una  graziosa  abitazione  posta  fra  il  cortile  e  il

      giardino."

      "Bah,  Chateau-Renaud"  disse  Debray,  "voi  non conoscete che il

      vostro  triste  ed  ammuffito  Faubourg  Saint-Germain...  Non  lo

      ascoltate  signor conte,  alloggiate nella Chaussée d'Antin,  è il

      vero centro di Parigi."

      "Boulevard dell'Opera" disse Beauchamp, "al primo piano,  una casa

      con  ringhiera...  Il  signor conte vi farà portare dei cuscini di

      broccato  d'argento,  e  vedrà,  fumando  la  sua  pipa  turca,  o

      inghiottendo  le  sue  pillole,  tutta la capitale sfilare sotto i

      suoi occhi."

      "E voi" disse  Chateau-Renaud,  "voi,  signor  Morrel,  non  avete

      alcuna idea? Nulla proponete?"

      "Anzi"  disse il giovane militare,  "al contrario,  ne ho una,  ma

      aspettavo che il signore si fosse  lasciato  tentare  da  qualcuna

      delle  brillanti  proposte  che gli sono state fatte.  Ora,  credo

      potergli offrire un appartamento in una casa piccola, ma graziosa,

      tutta alla Pompadour, che mia sorella ha presa in affitto da circa

      un anno in rue Meslay."

      "Voi avete una sorella?" domandò Montecristo.

      "Sì, signore, ed una eccellente sorella."

      "Maritata?"

      "Ben presto saranno nove anni."

      "E' felice?" domandò di nuovo il conte.

      "Tanto  felice,  quanto  è  permesso  a  creatura  umana"  rispose

      Massimiliano. "Sposò l'uomo che amava, quello che ci rimase fedele

      nell'avversa fortuna: Emanuele Herbaut."

      Montecristo sorrise impercettibilmente.

      "Io  abito  là durante il mio congedo" continuò Massimiliano,  "ed

      insieme a mio cognato Emanuele,  saremo a disposizione del  signor

      conte per tutte le informazioni che potesse desiderare."

      "Un momento" gridò Alberto,  prima che Montecristo avesse avuto il

      tempo  di  rispondere,   "riflettete  su  ciò  che  fate:   volete

      rinchiudere  un viaggiatore come Sindbad il marinaio nella vita di

      famiglia?  Un uomo che è venuto  a  vedere  Parigi,  volete  farlo

      diventare un patriarca?"

      "Oh,  no"  rispose Morrel sorridendo,  "mia sorella ha venticinque

      anni, mio cognato trenta; sono giovani, allegri e felici;  d'altra

      parte  il  signor  conte  avrà  il  proprio  appartamento,  e  non

      incontrerà gli ospiti che quando gli piacerà di scendere da loro".

      "Grazie,  signore,  grazie" disse Montecristo,  "mi contenterò  di

      essere da voi presentato a vostra sorella ed a vostro cognato,  se

      volete farmi questo onore;  ma non posso accettare le  offerte  di

      nessuno   di   questi  signori,   poiché  ho  già  pronta  la  mia

      abitazione."

      "Come!" gridò Morcerf,  "voi andate ad alloggiare in una  locanda?

      Sarebbe troppo disdicevole per voi."

      "Ma stavo forse tanto male a Roma?" domandò Montecristo.

      "Per Bacco,  a Roma" disse Morcerf,  "avevate speso cinquanta mila

      scudi per farvi ammobiliare un appartamento,  e presumo non sarete

      tutti i giorni disposto ad una simile spesa."

      "Ciò  non mi ha trattenuto" rispose Montecristo.  "Avevo stabilito

      di avere una casa a Parigi,  intendo  una  casa  mia.  Ho  mandato

      avanti il mio cameriere: a quest'ora l'avrà già comprata,  e fatta

      ammobiliare."

      "Ma diteci dunque,  avete un cameriere che conosce Parigi!"  gridò

      Beauchamp.

      "E' la prima volta,  signore,  ch'egli come me viene in Francia, è

      moro, e non parla..." disse Montecristo.

      "Allora è Alì?" domandò Alberto in mezzo alla sorpresa generale.

      "Sì, è Alì il mio nubiese, il mio moro,  che credo abbiate visto a

      Roma."

      "Sì, certamente" rispose Morcerf, "me lo ricordo benissimo."

      "Ma  come  mai  avete  incaricato uno della Nubia di comprarvi una

      casa  a  Parigi,  un  muto  per  farvelo  ammobiliare?  Il  povero

      disgraziato avrà fatte tutte le cose con grande difficoltà..."

      "Disingannatevi,  signore,  sono  certo  che avrà scelto ogni cosa

      secondo il mio gusto;  e voi sapete che il mio gusto non è  quello

      di  tutti...  Avrà  percorsa  tutta  la  città  con  quell'istinto

      naturale  che  userebbe  un  bravo  cane  da  caccia  che  andasse

      cacciando  da solo.  Conosce i miei capricci,  le mie fantasie,  i

      miei bisogni;  avrà ordinato tutto a modo mio.  Sapeva  che  sarei

      arrivato qui alle dieci; fin dalle nove mi aspettava alla barriera

      di Fontainebleau. Mi ha consegnato questo biglietto, col mio nuovo

      indirizzo: prendete e leggete..."

      "Champs-Elysées, numero 30" lesse Morcerf.

      "Ah!  è  veramente  originale!"  non  poté  fare  a  meno  di dire

      Beauchamp.

      "E' grandemente principesca!..." aggiunse Chateau-Renaud.

      "Come, voi non conoscete la vostra casa?" domandò Debray.

      "No" disse Montecristo,  "vi dissi  già  che  non  volevo  tardare

      all'appuntamento.  Feci la mia toilette in carrozza, e sono venuto

      alla porta del visconte."

      I giovani si guardarono l'un l'altro;  non sapevano se Montecristo

      avesse voluto rappresentare una commedia;  ma tutto ciò che usciva

      dalla bocca di quest'uomo  aveva,  nonostante  l'originalità,  una

      tale  impronta  di  semplicità,  che  non  si  poteva supporre che

      mentisse. D'altra parte, perché avrebbe mentito?

      "Bisognerà  contentarsi  di  rendere  al   signor   conte"   disse

      Beauchamp,  "tutti  quei  piccoli  favori  che  saranno  in nostro

      potere.  Io,  nella mia qualità di giornalista,  gli apro tutti  i

      teatri di Parigi."

      "Grazie,   signore"   rispose  sorridendo  Montecristo,   "il  mio

      intendente ha già l'ordine  di  prendere  in  fitto  un  palco  in

      ciascuno di essi."