vanno insieme, e che tuttavia si sono collegati contro di me: una
specie di alleanza Carlo-repubblicana. Allora mi sono ricordato
che questa mattina c'era festa in casa vostra, ed eccomi qua: ho
fame, nutritemi; sono annoiato, svagatemi."
"Questo è il mio dovere d'anfitrione, amico caro" disse Alberto
suonando per il cameriere, mentre Luciano colla sua bacchettina,
dal pomo cesellato ed incrostato di turchinette, faceva saltare i
giornali spiegati. "Germano, una bicchiere di Xeres ed un
biscotto. Frattanto, mio caro Luciano, ecco dei sigari, di
contrabbando bene inteso: v'invito a fumarli e a persuadere il
vostro ministro a vendercene degli uguali, invece delle foglie di
noce che condanna i buoni cittadini a fumare."
"Peste, me ne guarderò bene. Quando questi vi venissero dal
Governo non li vorreste più, e li ritrovereste esecrabili. D'altra
parte ciò non ha rapporto coll'interno, spetta alle finanze,
indirizzatevi al signor Humann, sezione delle contribuzioni
indirette, corridoio A, numero 26."
"In verità" disse Alberto, "mi sorprendete per le vostre estese
cognizioni. Ma prendete un sigaro!"
"Ah, caro conte" disse Luciano accendendo un sigaro ad una candela
color rosa in una bugia d'argento dorato, e rovesciandosi sul
divano, "quanto siete felice per non avere nulla da fare! In
verità, non conoscete la vostra felicità!"
"E che fareste dunque, mio caro rappacificatore di regni" rispose
Morcerf con una leggera ironia, "se non aveste nulla da fare?
Come! Segretario particolare di persone influenti, lanciato ad un
tempo nella gran cabala europea e nei piccoli intrighi di Parigi;
dovendo dirigere le elezioni; facendo più nel vostro gabinetto e
col vostro telegrafo di quel che non ha fatto Napoleone sui campi
di battaglia colla spada e colle vittorie; possedendo venticinque
mila lire di rendita, oltre il vostro impiego, un cavallo di cui
Chateau-Renaud vi ha offerto quattrocento luigi e non glielo avete
voluto dare, un sarto che non vi sbaglia mai un paio di calzoni;
avendo l'Opera, il Jockey Club, e il teatro del Varietà a
disposizione, non trovate dunque che tutto ciò sia buono per
distrarvi? Ebbene sia, vi distrarrò io."
"Ed in qual modo?"
"Col farvi fare una nuova conoscenza."
"Un uomo o una donna?"
"Un uomo."
"Oh, ne conosco già troppi!"
"Ma è uno come non ne conoscete, quello di cui vi parlo."
"E di dove viene dunque? di capo al mondo?"
"Fors'anche di più lontano."
"Oh, diavolo! Spero bene che non sia quello che deve portare la
nostra colazione?"
"No, state tranquillo, la nostra colazione è nelle cucine materne.
Ma dunque avete fame?"
"Sì, lo confesso, per quanto sia umiliante il dirlo. Ieri ho
pranzato dal signor Villefort, e non so se abbiate mai notato come
si pranza male tra i membri del tribunale: si direbbe che hanno
sempre dei rimorsi."
"Ah, per Bacco, voi disprezzate i pranzi degli altri! Come se si
pranzasse bene dai vostri ministri..."
"Sì, ma non invitiamo la gente di "bonton" almeno; e se non
fossimo obbligati ad invitare quei miserabili che pensano, e quel
che più importa, che danno buoni voti, ci guarderemmo come dalla
peste, di pranzare in casa nostra; questo vi prego di volerlo
credere sul serio."
"Allora, mio caro, prendete un altro bicchiere di Xeres e un altro
biscotto."
"Il vostro vino di Spagna è eccellente; vedete bene, che abbiamo
avuto gran ragione a rappacificare quel paese."
"E ciò vi procurerà il Toson d'Oro."
"Credo che questa mattina abbiate adottato il sistema di nutrirmi
di fumo."
"Eh, questo è quanto diverte più lo stomaco, convenitene... Ma
ascoltate: sento appunto la voce di Beauchamp nell'anticamera,
discuterete insieme, e ciò vi farà attendere con maggiore
pazienza."
"A proposito di che?"
"A proposito di giornali."
"Ah, caro amico" disse Luciano, con un sovrano disprezzo, "io
leggo forse giornali?"
"Ragione di più, allora discuterete maggiormente..."
"Il signor Beauchamp!" annunciò il cameriere.
"Entrate, entrate, penna terribile!" disse Alberto alzandosi e
andando incontro al giovane. "Ecco qui Debray che vi detesta senza
leggervi, almeno a quanto ha detto."
"Ne ha ben ragione" disse Beauchamp. "Si comporta come me, io lo
critico senza sapere quel che fa... Buon giorno, commendatore!"
"Ah, lo sapete già?" rispose il segretario particolare, scambiando
col giornalista una stretta di mano ed un sorriso.
"Per Bacco!" rispose Beauchamp.
"E che se ne dice nel mondo?"
"In qual mondo? Abbiamo molti mondi nell'anno di grazia 1838."
"Eh, nel mondo critico-politico di cui siete uno dei lyons."
"Ma, si dice che la cosa è giustissima."
"Andiamo, andiamo, non c'è male" disse Luciano. "Perché mai non
siete uno dei nostri, mio caro Beauchamp? Con tanto spirito,
fareste fortuna in tre o quattro anni."
"Non aspetto che una cosa per seguire il vostro consiglio. Ora,
una sola parola a voi, caro Alberto, poiché bisogna bene che lasci
respirare Luciano: facciamo colazione, o pranziamo? Perché io ho
la Camera che mi aspetta. Non sono tutte rose, come vedete, nel
nostro mestiere."
"Faremo soltanto colazione; non aspettiamo più che due persone, e
ci metteremo a tavola appena saranno giunte."
"E chi aspettate?" disse Beauchamp.
"Un gentiluomo e un diplomatico" rispose Alberto.
"Allora è affare di due piccole ore per il gentiluomo, e di due
grandi per il diplomatico; ritornerò alle frutta. Serbatemi delle
fragole, del caffè, e dei sigari; mangerò una costoletta alla
Camera."
"Non ne fate niente, Beauchamp. Quando anche il gentiluomo fosse
un Montmorency, e l'altro uno dei primi diplomatici, faremo
colazione alle undici precise; frattanto fate come Debray:
assaggiate il mio Xeres, ed i miei biscotti."
"Andiamo dunque, sia così, resto. Bisogna assolutamente che questa
mattina mi distragga."
"Bene, eccovi come Debray: mi sembra però che quando il Ministero
è triste l'opposizione debba essere allegra!"
"Ah, vedete, amico caro, non sapete da che cosa sono minacciato...
Questa mattina sentirò un discorso di Danglars, e questa sera in
casa di sua moglie una tragedia di un pari di Francia."
"Capisco, avete bisogno di far provvigione d'ilarità."
"Non dite dunque male dei discorsi di Danglars, egli vota per voi,
è dell'opposizione."
"Ecco, per Bacco, dove sta il male: io aspetto che lo mandiate a
discorrere al Lussemburgo per riderne a mio bell'agio."
"Caro mio" disse Alberto a Beauchamp, "si vede bene che gli affari
di Spagna sono accomodati, questa mattina siete di un'asprezza
stomachevole. Ricordatevi dunque che la cronaca parigina porta
trattative di un matrimonio fra me ed Eugenia Danglars. Non posso
dunque, in coscienza, lasciarvi parlar male dell'eloquenza di un
uomo, che un giorno o l'altro può dirmi: "Signor visconte, sapete
che assegno in dote due milioni a mia figlia"."
"Suvvia" disse Beauchamp, "questo matrimonio non si farà mai. Il
Re ha potuto farlo conte, ma non potrà mai farlo diventar
gentiluomo, ed il conte de Morcerf è una spada troppo
aristocratica per acconsentire, per due meschini milioni, ad una
cattiva alleanza. Il visconte de Morcerf non deve sposare che una
marchesa."
"Due milioni" rispose Alberto, "sono una bella cosa."
"Questo è il capitale sociale di un teatro dei boulevards, o di
una ferrovia dal Giardino delle piante a Rapée."
"Lasciatelo dire Morcerf" riprese con noncuranza Debray, "ed
ammogliatevi. Voi sposate la cifra che sta scritta sopra un sacco,
non è vero? Ebbene! Che v'importa? Meglio su questa cifra un
blasone di meno ed uno zero di più: avete sette merli nelle vostre
armi, ne darete tre a vostra moglie, e ve ne resteranno ancora
quattro."
"In fede mia, credo che abbiate ragione, Luciano" rispose con
distrazione Alberto.
"Eh certamente! D'altra parte egli è milionario e nobile come un
bastardo: cioè, potrebbe esserlo."
"Zitto! Non dite questo, Debray" rispose ridendo Beauchamp. "Ecco
qui Chateau-Renaud che per guarirvi dalla mania di ridurre, vi
passerebbe traverso il corpo la spada di Rinaldo di Montalbano,
suo avolo."
"Allora uscirebbe dalle regole dei duelli" rispose Luciano,
"perché io sono un villano, villanissimo."
"Bene!" gridò Beauchamp. "Ecco il Ministero che canta da pastore.
Eh! come finiremo?"
"Il signor Chateau-Renaud! Il signor Massimiliano Morrel!" disse
il cameriere, annunziando i due nuovi convitati.
"Il numero e completo!" disse Beauchamp. "Noi andiamo a far
colazione; perché se non erro aspettavate solo due persone,
Alberto?"
"Morrel!" mormorò Alberto, "e chi è costui?"
Ma prima che avesse terminato, il signor de Chateau-Renaud bel
giovane sui trent'anni, gentiluomo dalla testa ai piedi, vale a
dire, coll'aspetto di un Guiche e lo spirito di un Montemart,
aveva preso Alberto per la mano.
"Permettetemi mio caro" disse, "di presentarvi il signor
Massimiliano Morrel capitano degli Spahis (specie di cavalieri
africani), mio amico, e di più, mio salvatore. Del resto si
presenta abbastanza bene da se stesso: salutate il mio eroe,
visconte!"
E si scostò per presentare questo grande e nobile giovane, dalla
fronte larga, dallo sguardo penetrante, dai baffi neri, che i
nostri lettori ricorderanno di aver visto a Marsiglia in una
occasione molto più drammatica, e che non avranno certo
dimenticato.
Una ricca uniforme, metà francese, e metà orientale, mirabilmente
portata, faceva risaltare il suo largo petto, la croce della
Legion d'Onore, e la struttura agile delle sue forme.
Il giovane ufficiale s'inchinò con pulita eleganza; Morrel era
raffinato in tutti i suoi movimenti perché era forte.
"Signore" disse Alberto con affettuosa cortesia, "il barone di
Chateau-Renaud ben sapeva tutto il piacere che mi procurava nel
farmi fare la vostra conoscenza. Voi siete uno dei suoi amici,
signore; siate anche uno dei nostri."
"Benissimo" disse Chateau-Renaud, "e desidero, mio caro visconte,
che all'occasione faccia per voi quel che ha fatto per me."
"E che ha dunque fatto?" domandò Alberto.
"Oh, non è il caso di parlarne, il signore esagera."
"Come! non è il caso di parlarne? La vita non vale la pena che se
ne parli?... Davvero c'è troppa filosofia nelle vostre parole, mio
caro Morrel... Andrà bene per voi che esponete la vostra vita
tutti i giorni, ma per me che l'ho esposta una volta per caso..."
"Ciò che scorgo di più chiaro in tutto ciò, barone, è che il
capitano Morrel vi ha salvata la vita."
"Oh, mio Dio, sì, semplicemente" replicò Chateau-Renaud.
"E in quale occasione?" domandò Beauchamp.
"Beauchamp amico mio, sapete ch'io muoio di fame!" disse Debray.
"Non perdetevi dunque in storie."
"Ebbene, ma io" disse Beauchamp, "non impedisco che ci mettiamo a
tavola.., Chateau-Renaud ci racconterà tutto a tavola."
"Signori" disse Morcerf, "non sono che le dieci e un quarto, e noi
aspettiamo un altro convitato."
"Ah, è vero, un diplomatico" riprese Debray.
"Un diplomatico, o qualche altra cosa, non so niente: ciò che so,
è che lo incaricai di un'ambasciata per conto mio, da lui
disimpegnata con tanta soddisfazione che se fossi stato re, lo
avrei fatto cavaliere di tutti i miei ordini ad un tempo, anche
avessi avuto a mia disposizione il Toson d'Oro, e la
Giarrettiera."
"Allora, poiché non si va ancora a tavola" disse Debray,
"versatevi un altro bicchiere di Xeres come abbiamo fatto noi, e
raccontateci la vostra storia, barone."
"Voi tutti sapete che mi venne il capriccio di andare in Africa?"
"Strada tracciatavi dai vostri antenati, mio caro Chateau-Renaud"
disse con galanteria Morcerf.
"Sì, ma dubito che vi sarete andato, come loro, per liberare il
Santo Sepolcro."
"Avete ragione, Beauchamp" disse il giovane aristocratico, "fu
solo per tirare un colpo di pistola come dilettante... Il duello
mi ripugna, come voi sapete, da quando due testimoni, che io avevo
scelti per accomodare una contesa, mi costrinsero a rompere un
braccio ad uno dei miei migliori amici... eh, per Bacco, a quel
povero Franz d'Epinay, che voi tutti conoscete."
"Ah, è vero, vi batteste molto tempo fa... ed a proposito di che?"
"Il diavolo mi porti se me ne ricordo!" disse Chateau-Renaud. "Ma
ciò che mi ricordo perfettamente è che, avendo vergogna di lasciar
dormire un ingegno come il mio, ho voluto provare sugli arabi
delle pistole nuove di cui avevo avuto dono. In conseguenza
m'imbarcai per Orano; di là passai a Costantina, e giunsi giusto
in tempo per veder levare l'assedio. Mi aggregai alla ritirata
come gli altri. Per quarantotto ore sopportai abbastanza bene la
pioggia di giorno, e la neve di notte; finalmente nella terza
mattina il cavallo morì di freddo. Povera bestia! Abituato alle
coperte ed al braciere della scuderia... un cavallo arabo che si è
trovato spatriato per aver trovato appena dieci gradi di freddo in
Arabia..."
"Perciò volevate comprare il mio cavallo inglese" disse Debray,
"supponendo forse che avrebbe sopportato il freddo meglio del
vostro arabo."
"Siete in errore; poiché ho fatto voto di non ritornare più in
Africa."
"Voi dunque avete avuto paura?" domandò Beauchamp.
"In fede mia sì, lo confesso" disse Chateau-Renaud, "e ne ho avuto
ben donde! Il mio cavallo dunque era morto, io facevo la mia
strada a piedi, sei arabi vennero al galoppo per tagliarmi la
testa, ne ammazzai due con due colpi del mio fucile, due colle mie
pistole, ma ne restavano altri due, ed ero disarmato. Uno mi prese
per i capelli, per questo ora li porto corti, non si sa mai ciò
che può accadere, l'altro mi circondò il collo col suo yatagan, e
già sentivo il freddo acuto del ferro, quando questo signore che
vedete, caricò a sua volta contro, atterrò quello che mi teneva
per i capelli con un colpo di pistola, e colla sciabola spaccò la
testa a quello che stava a tagliarmi la gola. Questo signore si
era imposto in quel giorno l'obbligo di salvare un uomo, la
combinazione volle che fossi io: quando diventerò ricco, voglio
far fare da Klugmann o da Marochetti una statua che rappresenti
quell'episodio."
"Sì" disse sorridendo Morrel, "era il 5 settembre, l'anniversario
del giorno in cui mio padre fu miracolosamente salvato. Così, per
quanto è in mio potere, celebro tutti gli anni questo giorno con
qualche azione."
"Eroica, non è vero?" interruppe Chateau-Renaud. "Insomma, fui
l'eletto, ma qui non sta il tutto. Dopo avermi salvato dal ferro
mi salvò dal freddo, dandomi, non già una metà del suo mantello
come fece, non mi ricordo chi, ma tutto intero. Poi dalla fame,
dividendo con me, indovinate un poco che cosa?..."
"Un pasticcio di Félix?" chiese Beauchamp.
"No, il suo cavallo, di cui mangiammo entrambi un pezzo con
grandissimo appetito, sebbene fosse un poco duro..."
"Il cavallo?" domandò ridendo Morcerf.
"No, il sacrificio" rispose Chateau-Renaud. "Domandate a Debray se
sacrificherebbe il suo cavallo inglese per un estraneo?"
"Per un estraneo, no; per un amico potrebbe darsi" rispose Debray.
"Ed io pronosticai che sareste divenuto mio amico, signor conte"
disse Morrel. "D'altra parte ho già avuto l'onore di dirvelo:
eroismo o no, sacrificio o no, avevo un debito colla sorte, in
compenso del favore che altra volta ci aveva fatta."
"Questa storia a cui Morrel fa allusione, è una bellissima storia
e ve la racconterà un giorno, quando avrete fatto con lui più
estesa conoscenza per oggi approvvigioniamo lo stomaco, e non la
memoria. A che ora fate colazione?"
"Alle dieci e mezzo."
"Precise?" domandò Debray cavando l'orologio.
"Oh, mi accorderete cinque minuti di dilazione" disse Morcerf,
"poiché io pure aspetto un salvatore."
"Di chi?"
"Di me, per Bacco!" rispose Morcerf. "Credete forse che non possa
essere salvato come un altro, o che non vi siano che gli arabi che
tagliano la testa? La nostra colazione è una colazione di
riconoscenza ed avremo alla nostra tavola, spero almeno, due
benefattori dell'umanità."
"E come faremo?" disse Debray. "Non abbiamo che un sol premio
Monthyon..."
"Ebbene, verrà dato a qualcuno che nulla abbia fatto per
meritarlo" disse Beauchamp. "In questo modo di solito fa
l'accademia per togliersi da qualunque impaccio."
"E di dove viene?" domandò Debray. "Scusate l'insistenza; avete
già, lo so bene, risposto a questa domanda, ma molto vagamente e
perciò posso permettermi di farvela una seconda volta"
"In verità" disse Alberto, "non lo so. Quando l'ho invitato tre
mesi fa era a Roma. Ma da quel tempo, chi può dire il viaggio che
ha fatto?"
"E lo credete capace di essere puntuale?"
"Lo credo capace di tutto" rispose Morcerf.
"Fate attenzione che, compresi i minuti di dilazione, non ne
mancano che dieci."
"Ebbene, ne approfitterò per dirvi una parola sul mio convitato."
"Scusate" disse Beauchamp, "vi sarà materia per un articolo in ciò
che siete per narrare?"
"Sì, certamente" disse Morcerf, "ed anche dei più curiosi."
"Allora raccontate, poiché vedo bene che non potrò andare alla
Camera, e bisogna che ne abbia un vantaggio."
"Ero a Roma nell'ultimo carnevale."
"Questo lo sappiamo già" disse Beauchamp.
"Ma ciò che non sapete è che fui rapito dai briganti."
"Non vi sono più briganti" disse Debray.
"Ve ne sono, e ve ne sono anche degli orridi cioè ammirabili,
mentre ne ho trovati dei belli, ma da far paura."
"Vediamo, mio caro Alberto" disse Debray, "confessate che il
vostro cuoco è in ritardo, che le ostriche non sono ancora giunte
da Marennes o da Ostenda, e che come la signora di Maintenon,
volete sostituire un racconto ad un piatto. Ditelo, mio caro,
siamo abbastanza di buona compagnia per perdonarvelo, e per
ascoltare la vostra storia, purché sembri favolosa."
"Ed io vi dico, per quanto possa comparir favolosa, che ve la
garantisco per vera dal principio alla fine. I briganti dunque mi
avevano condotto in un luogo molto triste, chiamato le catacombe
di San Sebastiano."
"Le conosco" disse Chateau-Renaud, "per poco non vi presi le
febbri".
"Ed io ho fatto ancora di più: le ebbi realmente. Mi fu detto che
ero prigioniero, salvo il riscatto, una bagattella, quattromila
scudi romani, circa ventiseimila lire francesi. Disgraziatamente
non ne avevo più che millecinquecento; ero alla fine del mio
viaggio, e il mio credito era esaurito. Scrissi a Franz. Ah, per
Bacco! Franz era là, e potete chiedergli se mento di una
virgola... Scrissi dunque a Franz che se non giungeva alle sei del
mattino coi quattro mila scudi, alle sei e dieci minuti sarei
passato all'eterna gloria, e Luigi Vampa, questo è il nome del
capo dei briganti, vi prego di crederlo, avrebbe mantenuta
scrupolosamente la sua parola."
"Ma Franz sarà giunto coi quattromila scudi..." disse Chateau-
Renaud. "Che diavolo! non può trovarsi in impaccio per quattromila
scudi chi porta il nome di Franz d'Epinay o di Alberto de
Morcerf!"
"No, ma egli giunse solamente e semplicemente accompagnato dal
convitato che vi ho annunziato, e che spero potervi presentare."
"E che! è dunque Ercole che uccide Caco questo signore? un Perseo
che libera Andromeda?"
"No, è un uomo circa della mia corporatura."
"Armato fino ai denti?"
"Non aveva neppure un ferro di calzetta."
"Dunque contrattò il vostro riscatto?"
"Disse due parole all'orecchio del capo ed io fui liberato."
"Anzi gli fecero perfino le scuse d'avervi rapito" disse
Beauchamp.
"Precisamente" rispose Morcerf.
"Ma che! era dunque l'Orlando d'Ariosto quest'uomo?"
"No, era semplicemente il conte di Montecristo."
"Non c'è nessuno che si chiami così" disse Debray.
"Non credo" soggiunse Chateau-Renaud colla presenza d'animo
dell'uomo che tiene sulla punta delle dita tutte le genealogie
delle famiglie nobili dell'Europa, "ci sia chi conosca un conte di
Montecristo..."
"E' forse un qualche casato proveniente dalla Terra Santa" disse
Beauchamp: "uno dei suoi avi avrà posseduto il Calvario, come
Montemart, il Mar Morto."
"Scusate" disse Massimiliano, "io credo di potervi togliere
d'impaccio, signori: Montecristo è una piccola isola, di cui ho
spesso sentito parlare dai marinai impiegati da mio padre, un
grano di sabbia in mezzo al Mediterraneo, un atomo nell'infinito."
"Ed è vero, signore" disse Alberto. "Ebbene, di questo grano di
sabbia, di questo atomo è signore e re colui di cui vi parlo; egli
avrà comprato il diploma di conte in qualche parte della Toscana."
"E' dunque ricco il vostro conte?"
"In fede mia lo credo!"
"Ma ciò deve vedersi mi sembra..."
"Avete letto le Mille e una notte?"
"Per Bacco! bella domanda!"
"Le persone che vi appaiono sono ricche o povere? i loro grani di
frumento sono rubini o diamanti? Essi hanno l'aspetto di
miserabili pescatori, non è vero? Voi li trattate come tali, e
subito vi aprono qualche caverna misteriosa, e vi trovate un
tesoro da comprare le Indie. Il mio conte di Montecristo è uno di
quei pescatori; ha perfino un nome tolto da quella favola, si
chiama Sindbad il marinaio, e possiede una caverna piena d'oro."
"L'avete vista" domandò Beauchamp.
"Io no; Franz sì. Ma zitti! Non bisogna dire una parola di tutto
ciò davanti a lui. Franz vi discese cogli occhi bendati, e fu
servito da uomini muti, e da donne, in paragone delle quali
Cleopatra non era, a quanto pare, che una donna volgare. Soltanto
delle donne egli non è ben sicuro, giacché esse non apparvero che
dopo aver masticato dell'hashish di modo che potrebbe darsi che
quelle che ha prese per donne, non fossero state banalmente che
statue."
I giovani amici guardarono Morcerf con uno sguardo che voleva
dire: "Mio caro, diventate insensato o vi burlate di noi?".
"Però" disse Morrel pensieroso, "ho inteso raccontare anch'io da
un vecchio marinaio, chiamato Penelon, qualche cosa di simile a
ciò che dice il signor di Morcerf."
"Ah" fece Alberto, "sono ben fortunato che Morrel venga in mio
aiuto. Vi dispiace, non è vero, ch'egli getti un gomitolo di filo
nel mio labirinto?"
"Perdonate, mio caro, ma ci raccontate cose tanto inverosimili..."
"Ah, per Bacco! Perché i vostri ambasciatori, i vostri consoli non
ve ne parlano? Essi non ne hanno il tempo; hanno troppo da fare
nel molestare i loro compatrioti che viaggiano."
"Ah, ecco che v'inquietate, e ve la prendete coi nostri poveri
diplomatici. Eh, mio Dio, con che volete che vi proteggano? La
Camera corrode ogni giorno i loro stipendi, ed ora è al punto di
non trovarne più. Volete diventare ambasciatore? Vi farò nominare
a Costantinopoli."
"No, perché il Sultano alla prima nota in favore di Mehemet-Alì,
mi manderebbe il cordone, e i miei segretari mi strangolerebbero."
"Vedete bene!" disse Debray.
"Sì, tutto ciò non toglie che esista il mio conte di Montecristo!"
"Per Bacco, tutti gli uomini esistono, bel miracolo!"
"Tutti gli uomini esistono, ma non in simili condizioni. Tutti gli
uomini non hanno schiavi, gallerie principesche, armi alla
Casauba, cavalli di seimila franchi l'uno, e concubine greche."
"L'avete vista la concubina greca?"
"Sì, l'ho vista ed ascoltata; vista al teatro Valle, ascoltata un
giorno che facevo colazione dal conte."
"Il vostro uomo straordinario dunque mangia?"
"Certo che mangia! Ma tanto poco, che non merita parlarne." "Si
scoprirà poi che è un vampiro..."
"Ridete, se volete, questa era l'opinione della contessa G. che
come voi sapete, ha conosciuto lord Ruthwen."
"Ah, bene!" disse Beauchamp. "Ecco per un giornalista lo scoop del
famoso serpente di mare del "Constitutionnel": un vampiro, niente
meno!"
"Occhio rossiccio, la cui pupilla si dilata e restringe a volontà"
disse Debray, "volto ossuto e scarno, fronte spaziosa, tinta
livida, barba nera, denti bianchi ed acuti, compitezza tutta
particolare."
"Ebbene, è proprio così, Luciano" disse Morcerf, "i connotati sono
riportati a puntino. Sì, compitezza acuta ed incisiva. Quest'uomo
spesso mi ha fatto fremere, e particolarmente un giorno, fra gli
altri, che guardavamo insieme una esecuzione, ho creduto di
svenire, molto più nel vederlo e sentirlo ragionare freddamente su
tutti i supplizi della terra, che guardare il carnefice eseguire
il suo compito, e sentire le grida del condannato."
"E non vi ha condotto fra le rovine del Colosseo per succhiarvi il
sangue, Morcerf?" disse Beauchamp. "Ovvero, dopo avervi liberato,
non vi ha fatto firmare qualche pergamena color di fuoco, in virtù
della quale gli cediate la vostra anima?"
"Scherzate! scherzate quanto volete, signori!" disse Morcerf punto
sul vivo. "Quando osservo voialtri bei parigini, abituati al
Bastione di Gand, passeggiatori del Bois de Boulogne, e mi ricordo
di quest'uomo, mi pare che non siamo della stessa specie."
"Me ne vanto" disse Beauchamp.
"Il vostro conte di Montecristo" soggiunse Chateau-Renaud, "è però
sempre un galantuomo nelle ore d'ozio, salvo le sue piccole intese
coi banditi italiani..."
"Ma se non vi sono banditi italiani!" soggiunse Debray.
"Non vi sono vampiri!" disse Beauchamp.
"Non esiste il conte di Montecristo!" riprese Debray. "Ascoltate,
caro Alberto, suonano le dieci e mezzo."
"Confessate che avete veduto un fantasma, e andiamo a far
colazione" disse Beauchamp.
Ma la vibrazione dell'orologio a pendolo non era ancora estinta,
quando la porta si aprì, e Germano annunziò:
"Sua Eccellenza il conte di Montecristo!"
Tutti gli uditori fecero loro malgrado un movimento di sorpresa.
Alberto stesso non poté evitare una commozione momentanea.
Non era stata udita né carrozza sulla strada, né passi
nell'anticamera; la porta stessa si era aperta senza rumore. Il
conte comparve sulla soglia, vestito colla più grande semplicità,
ed il lyon più esigente non avrebbe saputo trovarvi la più piccola
mancanza.
Tutto era di un gusto squisito, tutto usciva dalle mani dei più
eleganti fornitori: abiti, cappello, biancheria.
Sembrava avere appena trentacinque anni, ma ciò che sorprese tutti
fu l'estrema rassomiglianza col ritratto che ne aveva fatto
Debray. Il conte avanzò sorridendo in mezzo al salotto, e andò
direttamente da Alberto, che venendogli incontro gli offerse con
trasporto la mano.
"L'esattezza" disse Montecristo, "è la gentilezza dei re, per
quanto ha preteso, io credo, uno dei vostri sovrani. Ma qualunque
sia la loro buona volontà, non è però sempre quella dei
viaggiatori. Però io spero, mio caro visconte, che mi scuserete,
in grazia della mia buona volontà, i due o tre secondi di ritardo
al nostro appuntamento; cinquecento leghe non si fanno senza
qualche contrattempo, particolarmente in Francia ove è proibito, a
quanto sembra, frustare i postiglioni."
"Signor conte" rispose Alberto, "stavo proprio preannunciando la
vostra visita agli amici, da me riuniti per la promessa che mi
faceste e che ho l'onore di presentarvi. Questi signori sono, il
conte di Chateau-Renaud, la cui nobiltà risale ai dodici Pari, i
cui antenati hanno avuto posto alla Tavola rotonda; Luciano
Debray, segretario particolare del ministro dell'interno;
Beauchamp, terribile giornalista, il terrore del governo francese,
e di cui forse, ad onta della sua celebrità, non avrete inteso
parlare in Italia, visto che il suo giornale non vi può entrare;
finalmente Massimiliano Morrel, capitano degli Spahis."
A questo nome, il conte, che fino allora aveva salutato
cortesemente, ma con una freddezza ed una impassibilità tutta
inglese, fece suo malgrado un passo in avanti, ed una leggera
tinta vermiglia passò come un lampo sulle sue pallide guance.
"Il signore porta l'uniforme dei nuovi vincitori francesi" disse;
"è una bella uniforme!"
Non sarebbe stato possibile poter dire quale fosse il sentimento
che dava alla voce del conte una così profonda vibrazione, e
faceva brillare suo malgrado l'occhio tanto bello, tanto sereno e
limpido, quando non aveva alcun motivo per velarlo.
"Voi non avevate mai visto i nostri africani, signor conte?" disse
Alberto.
"Giammai!" replicò il conte, ritornato perfettamente padrone di se
stesso.
"Ebbene, signor conte, sotto quest'uniforme batte uno dei cuori
più coraggiosi e più nobili dell'esercito..."
"Oh, signor conte..." interruppe Morrel.
"Lasciatemi dire, capitano... Non ha pari" continuò Alberto.
"Abbiamo appreso un tratto così eroico del signore, che quantunque
io lo veda oggi per la prima volta, pretendo il favore di
potervelo presentare come mio amico."
E si sarebbe potuto, anche a queste parole, scorgere nel conte
quello strano sguardo indagatore, quel rossore fuggitivo, e quel
leggero tremore della palpebra, che in lui tradiva l'emozione.
"Ah, il signore ha un cuore nobile?" disse il conte. "Tanto
meglio!"
Questa specie di esclamazione che corrispondeva piuttosto al
pensiero del conte, che al discorso di Alberto, sorprese tutti, ma
particolarmente Morrel, che guardò il conte di Montecristo con
stupore.
Ma il tono della voce era stato così dolce e per così dire soave,
che, per quanto strana fosse apparsa questa esclamazione, non
c'era ragione in alcun modo di offendersene.
"Perché dunque ne dubiterebbe?" disse Beauchamp a Chateau-Renaud.
"In verità" rispose questi, che, coll'abitudine al gran mondo e la
chiarezza del colpo d'occhio aristocratico, aveva riconosciuto in
Montecristo molte qualità, "in verità Alberto non ci ha ingannati,
è un personaggio singolare questo conte... Che ne dite, Morrel?"
"In fede mia" rispose questi, "ha l'occhio franco e la voce
simpatica, di modo che mi piace malgrado la bizzarra riflessione
fatta sul mio conto."
"Signori" disse Alberto, "Germano mi avverte che la colazione è
pronta. Mio caro conte, permettete che vi mostri la strada."
Passarono silenziosamente nella sala da pranzo, e ciascuno si mise
al suo posto.
"Signori" disse il conte sedendosi, "permettete una confessione
che sarà la mia scusa per tutte le sconvenienze che potrò
commettere: sono forestiero, ma forestiero a tal punto che questa
è la prima volta che vengo a Parigi. La vita francese mi è dunque
perfettamente sconosciuta, non avendo fino ad ora seguita che
l'orientale, la più antitetica alle buone tradizioni parigine. Vi
prego dunque di scusarmi se troverete in me qualche cosa di troppo
turco, o di troppo arabo. Detto ciò, signori, facciamo colazione."
"Dal modo che ha detto tutto ciò" mormorò Beauchamp, "si capisce
che è un gran signore!"
"Un gran signore straniero" soggiunse Debray.
"Un signore cosmopolita" disse Chateau-Renaud.
Ognuno ricorderà che il conte era un convitato sobrio.
Alberto osservò la cosa, e manifestò il timore che non avesse a
dispiacergli la vita parigina fin dal principio, nella parte più
materiale, è vero, ma nello stesso tempo più necessaria.
"Mio caro conte" disse, "voi mi vedete colpito da un timore: che
la cucina della rue Helder non abbia a piacervi quanto quella
della piazza di Spagna. Avrei dovuto chiedervi ciò che più vi
gusta, e farvi preparare qualche piatto di vostra fantasia."
"Se mi conosceste di più" rispose sorridendo il conte, "non vi
preoccupereste di una cosa quasi umiliante per un viaggiatore come
me, che ha successivamente vissuto con maccheroni a Napoli, con
polenta a Milano, con olla podrida a Valenza, con riso asciutto a
Costantinopoli, con karrick nelle Indie, e con nidi di rondini
nella Cina. Non c'è una cucina particolare per un cosmopolita come
me: mangio di tutto ed in ogni luogo; solo mangio poco, ed oggi
che mi rimproverate la mia sobrietà, sono in una delle giornate
del mio massimo appetito, perché da ieri mattina non ho più
mangiato."
"Come da ieri mattina?" esclamarono i convitati. "Non avete
mangiato da ventisei ore?"
"No" rispose il conte. "Fui obbligato a deviare dalla mia strada
per portarmi a Nimes a prendere alcune informazioni, di modo che
ero un poco in ritardo, e non ho voluto fermarmi."
"Ma avrete mangiato in carrozza?!" disse Morcerf.
"No, ho dormito, come mi succede quando mi annoio senza avere il
coraggio di distrarmi, o quando ho fame senza avere voglia di
mangiare."
"Ma dunque comandate al sonno?" domandò Morrel.
"Press'a poco."
"Avete una ricetta per questo?"
"Infallibile."
"Sarebbe eccellente per noi africani, che non sempre abbiamo da
mangiare, e sempre difficilmente da bere..." disse Morrel.
"Sì" disse il conte, "disgraziatamente la mia ricetta, buona per
un uomo come me, che conduce una vita eccezionale, sarebbe molto
pericolosa applicata ad un esercito, che non si sveglierebbe più,
quando se ne avesse bisogno."
"Si può sapere che è questa ricetta?" chiese Debray.
"Oh, mio Dio, sì" disse il conte, "non ne faccio alcun segreto; è
una mistura di eccellente oppio; io stesso sono stato a cercare a
Canton, per esser certo di averlo puro, e del migliore hashish che
si raccolga in Oriente, cioè fra il Tigri e l'Eufrate. Si
riuniscono questi due ingredienti in porzioni uguali, e se ne
formano delle specie di pillole che s'inghiottono quando uno ne ha
bisogno. L'effetto si produce dieci minuti dopo. Domandatene al
barone Franz d'Epinay, che credo un giorno ne abbia gustato."
"Sì" rispose Morcerf, "me ne ha accennato, anzi ne ha conservata
grata memoria."
"Ma" disse Beauchamp, che nella sua qualità di giornalista era
molto incredulo, "portate sempre questa droga con voi?"
"Sempre!" rispose il conte di Montecristo.
"Sarei indiscreto se vi domandassi di vedere queste pillole?"
continuò Beauchamp, nella speranza di cogliere lo straniero in
fallo.
"No, signore..." rispose il conte.
E cavò di tasca una meravigliosa bomboniera scavata in un solo
smeraldo, e chiusa con un fermaglio d'oro, che, aprendosi,
lasciava uscire una pillola di color verdastro, della grossezza di
un pisello.
Questa pillola aveva un odore acre e penetrante, e ve ne erano
quattro o cinque nella cavità dello smeraldo che ne poteva
contenere circa una dozzina. La bomboniera fece il giro della
tavola, ed i convitati se la facevano passare più per esaminare la
magnificenza dell'ammirabile smeraldo, che per guardare e fiutare
le pillole che conteneva.
"E' forse il vostro cuoco che vi prepara questo miscuglio?"
domandò Beauchamp.
"No, signore" disse il conte di Montecristo, "non abbandono i miei
piaceri all'arbitrio di mani inesperte; sono abbastanza buon
chimico per prepararmi da solo queste pillole."
"Questo è uno smeraldo ammirabile, ed è il più grosso che abbia
mai visto, quantunque mia madre abbia qualche gioia di famiglia
molto notevole..." disse Chateau-Renaud.
"Di questi ne avevo tre" soggiunse il conte di Montecristo: "uno
lo regalai al Gran Visir, che ne ha adornata la sua sciabola;
l'altro a persona che non posso nominare; il terzo l'ho serbato
per me, e l'ho fatto scavare gli ho tolto metà del suo valore, ma
l'ho reso più adatto all'uso al quale l'ho destinato."
Ciascuno guardò il conte di Montecristo con meraviglia; parlava
con tanta semplicità, che faceva ritenere vero ciò che diceva, o
pazzo: lo smeraldo nelle sue mani provava però la prima
supposizione.
"Che vi hanno dato in cambio le persone cui avete fatto simili
doni?" chiese Debray.
"Il Gran Visir mi concesse la libertà di una donna" rispose il
conte, "l'altra persona la vita di un uomo. Di modo che per due
volte sono stato possente, come fossi nato sui gradini di un
trono."
"Forse fu Peppino che liberaste, non è vero?" gridò Morcerf, "a
lui applicaste il vostro diritto di grazia?"
"Può darsi" disse Montecristo, sorridendo.
"Signor conte" disse Morcerf, "non potete farvi un'idea del
piacere che provo nel sentirvi parlare in tal modo. Vi avevo già
dipinto ai miei amici come un uomo favoloso, come un mago delle
Mille e una notte, come uno stregone del medio evo, ma i parigini
sono persone talmente sottili nei paradossi, che prendono per
capricci dell'immaginazione le verità più incontrastabili, quando
non sono abituali. Per esempio, ecco Debray che legge, e Beauchamp
che stampa tutti i giorni: è stato fermato e spogliato sui
bastioni qualche membro del Jockey Club in ritardo, sono state
assassinate quattro persone sulla rue Saint-Denis o nel Faubourg
Saint-Germain, sono stati arrestati quattro, dieci, venti ladri,
sia in un caffè sul Bastione del Tempio, sia alle Terme di Giulio.
E negano l'esistenza dei banditi nelle Maremme, nella Campagna
romana, e nelle paludi pontine. Dite dunque voi stesso, ve ne
prego, signor conte, che sono stato preso da questi banditi, e
che, senza la vostra generosa intercessione, io oggi aspetterei,
secondo tutte le probabilità, la resurrezione finale nelle
catacombe di San Sebastiano, invece di offrire loro colazione
nella mia piccola ed indegna casa in rue Helder."
"Mi avete promesso di non parlarmi più di questa miseria."
"Non sono io che vi ho fatto questa promessa, signor conte" gridò
Morcerf, "sarà stato qualche altro cui avete reso un simile
favore, e che ora confondete con me. Parliamone anzi, ve ne prego;
perché se vi risolvete a parlare di questo episodio, non solo
ridirete alcune cose che so, ma molte altre che non so."
"Mi sembra che in tutto questo affare" soggiunse il conte ridendo,
"abbiate sostenuta una parte di troppa importanza, per sapere al
par mio tutto ciò che è accaduto."
"Volete promettermi che, se dico tutto quel che so, mi direte
tutto quel che non so?"
"E' troppo giusto" rispose Montecristo.
"Ebbene" soggiunse Morcerf, "dovesse il mio amor proprio di nuovo
soffrirne, mi sono creduto per tre giorni oggetto delle civetterie
di una maschera che ritenevo discendente delle Tullie, o delle
Poppee, mentre ero semplicemente oggetto delle frascherie di una
contadina; e notate bene che dico contadina per non dir villana.
Poi come un gonzo ho scambiato un giovane bandito sui quindici
sedici anni per quella contadina, fino a deporre un bacio sulla
sua casta spalla. Lui, in quel momento, mi ha messo le pistole
alla gola e coll'aiuto di altri sette o otto banditi, mi ha
condotto o piuttosto trascinato nel fondo delle catacombe di San
Sebastiano. Qui trovai un capo di banditi molto letterato, in fede
mia, che leggeva i Commentari di Giulio Cesare, e che si è degnato
d'interrompere la lettura per dirmi che se l'indomani alle sei del
mattino non avessi versati quattromila scudi nella sua cassa, alle
sei e un quarto avrei cessato di vivere. La lettera esiste, essa è
nelle mani di Franz, firmata da me, con poscritto di mastro Luigi
Vampa. Se ne dubitate, scriverò a Franz che potrà mostrarvi le
firme. Ecco ciò che so. Quello che mi resta a sapere è come mai,
voi signor conte, siate giunto ad incutere ai banditi di Roma un
così gran rispetto, essi che nulla rispettano. Vi confesso che
Franz e io ne fummo pieni d'ammirazione."
"Niente di più semplice, signore" rispose il conte. "Conoscevo il
famoso Vampa da più di dieci anni. Quand'era ancor giovane e
pastore, un giorno gli regalai non mi sovviene qual moneta d'oro,
perché mi indicò la strada ed egli, per non aver niente del mio,
mi dette in cambio un pugnale intagliato colle sue mani, e che voi
forse avrete notato nella mia collezione d'armi. Col tempo, sia
che egli dimenticasse questo scambio di piccoli regali, che doveva
mantenere l'amicizia fra noi, sia che non mi avesse riconosciuto,
tentò di rapirmi; ma io invece catturai lui con una dozzina dei
suoi compagni. Allora potevo abbandonarlo alla giustizia romana
che è spiccia, e si sarebbe ancora affrettata di più a suo
riguardo ma non lo feci: lo rimandai con tutti i suoi."
"A condizione che non peccassero più" disse il giornalista
ridendo. "Vedo con piacere ch'essi hanno mantenuta.
scrupolosamente la parola."
"No, signore" rispose Montecristo, "a condizione che rispettassero
sempre me ed i miei amici."
"Alla buon'ora!" gridò Chateau-Renaud, "ecco il primo uomo
coraggioso da cui sento predicare lealmente e brutalmente
l'egoismo, ciò è bellissimo, bravo!, signor conte."
"Almeno ciò è molto franco" disse Morrel, "ma sono sicuro che il
signor conte non si è pentito di avere una volta mancato a questi
principi, esposti in modo così assoluto."
"Ed in qual modo ho mancato ai miei principi, signore?" domandò
Montecristo, che ogni tanto non poteva esimersi dal guardare
Massimiliano con tanta attenzione, che già due o tre volte
l'ardito giovane era stato costretto ad abbassare gli occhi, allo
sguardo limpido e chiaro del conte.
"Mi sembra" rispose Morrel, "che liberando il signor de Morcerf
che non conoscevate voi servivate al prossimo, ed alla società..."
"Di cui egli fa il più bell'ornamento" disse con gravità Beauchamp
vuotando in un sol fiato un bicchiere di champagne.
"Signor conte" gridò Morcerf, "eccovi preso dal ragionamento, voi
uno dei più aspri logici che io conosca. E quanto prima vi sarà
dimostrato che invece d'essere un egoista, siete un altruista. Ah,
voi vi spacciate per orientale, levantino, maltese, indiano,
cinese, selvaggio, vi chiamate Montecristo per nome di famiglia,
Sindbad il marinaio per nome di battesimo ed ecco che il primo
giorno che mettete piede a Parigi, già possedete il più gran
difetto della nostra eccentricità parigina, vale a dire usurpate i
vizi che non avete!"
"Mio caro visconte" disse Montecristo, "non vedo in tutto ciò che
ho detto o fatto, una sola parola che possa meritarmi per parte
vostra e di questi signori, l'elogio che ricevo. Voi non mi
eravate estraneo, poiché vi avevo offerta una colazione, vi avevo
prestata per otto giorni la mia carrozza, avevamo veduto assieme
passare le maschere per il Corso, e perché avevamo guardato dalla
stessa finestra della piazza del Popolo quella esecuzione che vi
fece tanta impressione che quasi sveniste. Ora, io domando a
questi signori, potevo lasciare il mio ospite nelle mani di quegli
spaventosi banditi, come voi li chiamate? D'altra parte, lo
sapete, avevo nel salvarvi un secondo fine, quello di servirmi di
voi per introdurmi nella società di Parigi quando fossi venuto in
Francia. Per qualche tempo avete potuto considerare questa
risoluzione come un disegno vago ed incerto; ma oggi, lo vedete, è
una bella e buona realtà, alla quale bisogna che vi sottomettiate,
sotto pena di mancare alla vostra parola."
"Ed io la manterrò" disse Morcerf, "ma temo che presto vi cadrà
ogni illusione, mio caro conte, voi, avvezzo ai luoghi
d'avventure, agli avvenimenti pittoreschi ai fantastici orizzonti.
Presso noi non vi accadrà il più piccolo episodio di quelli cui la
vita fantastica vi ha abituato. Il nostro Chimboraco è Montmartre,
il nostro Himalaya è il monte Valérien, il nostro Gran Deserto è
la pianura di Grenelle. Noi abbiamo dei ladri ed anche molti,
quantunque non ve ne siano tanti quanti si dice; ma essi temono
ugualmente la più piccola spia come il più gran signore. Infine la
Francia è un paese così prosaico, e Parigi una città tanto
incivilita, che non troverete cercando per tutti gli ottantacinque
nostri dipartimenti (dico ottantacinque dipartimenti, perché, ben
inteso, separo la Corsica dalla Francia) che non troverete una
sola montagna in cui non vi sia un telegrafo, la più piccola
grotta un poco oscura, nella quale un commissario di polizia non
abbia fatto porre un becco a gas. Non vi è dunque che un solo
favore che posso rendervi, mio caro conte, e per questo mi metto
interamente a vostra disposizione, ed è di presentarvi ovunque, e
farvi presentare dai miei amici, benché voi per questo non abbiate
bisogno d'alcuno: col vostro nome, la vostra fortuna, ed il vostro
spirito" (Montecristo s'inchinò con un sorriso leggermente
ironico), "ognuno si presenta ovunque da se stesso, ed ovunque è
ben ricevuto. In realtà dunque non posso essere utile per voi che
ad una cosa sola: se l'abitudine della vita parigina, se la
esperienza dei nostri usi, se la conoscenza dei nostri bazar
possono raccomandarmi a voi, mi metto a vostra disposizione per
trovarvi una conveniente abitazione. Non oso proporvi di farvi
parte del mio alloggio, come ho partecipato del vostro a Roma...
Non professo l'egoismo, ma sono egoista per eccellenza... perché
il mio alloggio non potrebbe contenere, oltre me, neppure
un'ombra... a meno che non fosse quella di una donna."
"Ah" fece il conte, "ecco una riserva del tutto matrimoniale: voi
infatti a Roma mi avete detto qualche parola di un matrimonio in
trattativa; debbo congratularmi per la vostra prossima felicità?"
"La cosa è sempre allo stato di progetto, signor conte."
"E chi dice progetto" soggiunse Debray, "vuol dire eventualità."
"No, no, mio padre si è impegnato, e spero fra poco di presentarvi
se non mia moglie, almeno la mia fidanzata, la signorina Eugenia
Danglars."
"Eugenia Danglars" riprese Montecristo, "aspettate dunque... Suo
padre non è il barone Danglars?"
"Sì" rispose Morcerf, "ma barone di nuova formazione."
"Oh, che importa!" rispose Montecristo, "se ha reso allo Stato dei
servigi che gli abbiano meritata questa distinzione."
"Servigi enormi!" disse Beauchamp. "Quantunque liberale nell'anima
nel 1829 completò un prestito di sei milioni a Carlo Decimo che lo
ha, penso io, fatto barone e cavaliere della Legione d'Onore, di
modo che egli porta la decorazione non al taschino del giubbetto,
come si potrebbe credere, ma all'occhiello dell'abito!"
"Ah" disse Morcerf ridendo, "Beauchamp, riserbate questi frizzi
per inserirli sul "Corsaire" e sul "Charivari", ma in mia presenza
risparmiate il mio futuro suocero."
Quindi volgendosi a Montecristo:
"Ma voi poco fa ne pronunciaste il nome come se conosceste il
barone?"
"Non lo conosco" disse negligentemente Montecristo, "ma
probabilmente non tarderò molto a fare la sua conoscenza, visto
che ho dei crediti aperti su lui dalla casa Richard e Blount di
Londra, Arstein e Escheles di Vienna, Thomson e French di Roma."
Pronunciando questi due ultimi nomi, Montecristo guardò colla coda
dell'occhio Massimiliano Morrel.
Se lo straniero aveva calcolato di produrre un effetto sopra
Massimiliano, non si era ingannato.
Massimiliano trasalì come se avesse ricevuta una scossa elettrica.
"Thomson e French!" disse. "Conoscete questa casa, signore?"
"Sono i miei banchieri nella capitale del mondo cristiano" rispose
tranquillamente il conte. "Posso esservi utile con loro?"
"Ah, signore, voi potreste aiutarmi, forse, in certe ricerche, che
fino ad oggi sono state infruttuose. In altro tempo questa casa ha
reso un grandissimo favore alla nostra, e non so perché, ma ha
sempre negato di avercelo reso."
"Sono ai vostri ordini..." rispose Montecristo, inchinandosi.
"Ma noi" disse Morcerf, "ci siamo allontanati per Danglars
dall'argomento della conversazione. Si trattava di trovare una
casa conveniente al conte di Montecristo. Andiamo signori
orizzontiamoci per averne un'idea: dove alloggeremo questo nuovo
ospite della grande Parigi?"
"Nel Faubourg Saint-Germain" disse Chateau-Renaud, "il signore
troverà una graziosa abitazione posta fra il cortile e il
giardino."
"Bah, Chateau-Renaud" disse Debray, "voi non conoscete che il
vostro triste ed ammuffito Faubourg Saint-Germain... Non lo
ascoltate signor conte, alloggiate nella Chaussée d'Antin, è il
vero centro di Parigi."
"Boulevard dell'Opera" disse Beauchamp, "al primo piano, una casa
con ringhiera... Il signor conte vi farà portare dei cuscini di
broccato d'argento, e vedrà, fumando la sua pipa turca, o
inghiottendo le sue pillole, tutta la capitale sfilare sotto i
suoi occhi."
"E voi" disse Chateau-Renaud, "voi, signor Morrel, non avete
alcuna idea? Nulla proponete?"
"Anzi" disse il giovane militare, "al contrario, ne ho una, ma
aspettavo che il signore si fosse lasciato tentare da qualcuna
delle brillanti proposte che gli sono state fatte. Ora, credo
potergli offrire un appartamento in una casa piccola, ma graziosa,
tutta alla Pompadour, che mia sorella ha presa in affitto da circa
un anno in rue Meslay."
"Voi avete una sorella?" domandò Montecristo.
"Sì, signore, ed una eccellente sorella."
"Maritata?"
"Ben presto saranno nove anni."
"E' felice?" domandò di nuovo il conte.
"Tanto felice, quanto è permesso a creatura umana" rispose
Massimiliano. "Sposò l'uomo che amava, quello che ci rimase fedele
nell'avversa fortuna: Emanuele Herbaut."
Montecristo sorrise impercettibilmente.
"Io abito là durante il mio congedo" continuò Massimiliano, "ed
insieme a mio cognato Emanuele, saremo a disposizione del signor
conte per tutte le informazioni che potesse desiderare."
"Un momento" gridò Alberto, prima che Montecristo avesse avuto il
tempo di rispondere, "riflettete su ciò che fate: volete
rinchiudere un viaggiatore come Sindbad il marinaio nella vita di
famiglia? Un uomo che è venuto a vedere Parigi, volete farlo
diventare un patriarca?"
"Oh, no" rispose Morrel sorridendo, "mia sorella ha venticinque
anni, mio cognato trenta; sono giovani, allegri e felici; d'altra
parte il signor conte avrà il proprio appartamento, e non
incontrerà gli ospiti che quando gli piacerà di scendere da loro".
"Grazie, signore, grazie" disse Montecristo, "mi contenterò di
essere da voi presentato a vostra sorella ed a vostro cognato, se
volete farmi questo onore; ma non posso accettare le offerte di
nessuno di questi signori, poiché ho già pronta la mia
abitazione."
"Come!" gridò Morcerf, "voi andate ad alloggiare in una locanda?
Sarebbe troppo disdicevole per voi."
"Ma stavo forse tanto male a Roma?" domandò Montecristo.
"Per Bacco, a Roma" disse Morcerf, "avevate speso cinquanta mila
scudi per farvi ammobiliare un appartamento, e presumo non sarete
tutti i giorni disposto ad una simile spesa."
"Ciò non mi ha trattenuto" rispose Montecristo. "Avevo stabilito
di avere una casa a Parigi, intendo una casa mia. Ho mandato
avanti il mio cameriere: a quest'ora l'avrà già comprata, e fatta
ammobiliare."
"Ma diteci dunque, avete un cameriere che conosce Parigi!" gridò
Beauchamp.
"E' la prima volta, signore, ch'egli come me viene in Francia, è
moro, e non parla..." disse Montecristo.
"Allora è Alì?" domandò Alberto in mezzo alla sorpresa generale.
"Sì, è Alì il mio nubiese, il mio moro, che credo abbiate visto a
Roma."
"Sì, certamente" rispose Morcerf, "me lo ricordo benissimo."
"Ma come mai avete incaricato uno della Nubia di comprarvi una
casa a Parigi, un muto per farvelo ammobiliare? Il povero
disgraziato avrà fatte tutte le cose con grande difficoltà..."
"Disingannatevi, signore, sono certo che avrà scelto ogni cosa
secondo il mio gusto; e voi sapete che il mio gusto non è quello
di tutti... Avrà percorsa tutta la città con quell'istinto
naturale che userebbe un bravo cane da caccia che andasse
cacciando da solo. Conosce i miei capricci, le mie fantasie, i
miei bisogni; avrà ordinato tutto a modo mio. Sapeva che sarei
arrivato qui alle dieci; fin dalle nove mi aspettava alla barriera
di Fontainebleau. Mi ha consegnato questo biglietto, col mio nuovo
indirizzo: prendete e leggete..."
"Champs-Elysées, numero 30" lesse Morcerf.
"Ah! è veramente originale!" non poté fare a meno di dire
Beauchamp.
"E' grandemente principesca!..." aggiunse Chateau-Renaud.
"Come, voi non conoscete la vostra casa?" domandò Debray.
"No" disse Montecristo, "vi dissi già che non volevo tardare
all'appuntamento. Feci la mia toilette in carrozza, e sono venuto
alla porta del visconte."
I giovani si guardarono l'un l'altro; non sapevano se Montecristo
avesse voluto rappresentare una commedia; ma tutto ciò che usciva
dalla bocca di quest'uomo aveva, nonostante l'originalità, una
tale impronta di semplicità, che non si poteva supporre che
mentisse. D'altra parte, perché avrebbe mentito?
"Bisognerà contentarsi di rendere al signor conte" disse
Beauchamp, "tutti quei piccoli favori che saranno in nostro
potere. Io, nella mia qualità di giornalista, gli apro tutti i
teatri di Parigi."
"Grazie, signore" rispose sorridendo Montecristo, "il mio
intendente ha già l'ordine di prendere in fitto un palco in
ciascuno di essi."